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31 gennaio 2018

Iraqi Christians in Jordan Are Being 'Neglected' by United Nations, Rights Activist Warns

By The Christian Post
Samuel Smith

Thousands of Iraqi Christians who fled their homes in fear of being killed by the Islamic State and have sought shelter in neighboring Jordan are being “neglected” by the United Nations in their quest for refugee status and resettlement, an Assyrian Christian human rights activist has warned.
Earlier this month, Juliana Taimoorazy, a research fellow with the Philos Project and founder of the United States-based NGO Iraqi Christian Relief Council, traveled with others to Iraq and Jordan for a “fact finding” mission about the status of Christian refugees displaced from their homes due to the rise of the jihadi death cult in Northern Iraq in 2014.
In a recent interview with The Christian Post, Taimoorazy explained that while she was pleased by the progress being made in assisting and returning Iraqi Christians to their homes and villages inside Iraq, the two days that she and her colleagues spent with displaced Iraqi Christian families in Jordan broke their hearts.
“They are completely neglected by the UNHCR — completely,” Taimoorazy explained, referring to the United Nations High Commissioner for Refugees.
According to estimates that Taimoorazy received from sources on the ground in Jordan, there are currently around 15,000 displaced Iraqi Christians seeking shelter in the kingdom.
Taimoorazy and her colleagues were able to meet with and listen to the experiences of at least 30 Iraqi Christian families during their time in Jordan.
“They actually live in poor neighborhoods in suburbs of Amman. There were three families that we met that were living in a three-bedroom apartment,” Taimoorazy detailed. “There is no privacy. They complain that aid does not get to them. Different charity organizations come but they don’t bring enough aid. UNHCR has not granted a majority of them refugee status as of yet.”
According to estimates Taimoorazy is familiar with, there were around 25,000 Iraqi Christians displaced inside Jordan in 2015 when she last visited the country. Although about 10,000 of those Christians have been resettled to countries like Canada and Australia, the remaining 15,000 have been trapped in the system, Taimoorazy stressed.
Many of those Christian families, she stated, are simply just waiting to hear back from the UNHCR about when they can finally complete the process to be given refugee status.
“What happens is when they get to Jordan, they are interviewed and are given the file number and paperwork. And then, they are asked to wait. They don’t tell them when they will get called back in for the second interview, when they will get refugee status. The majority of them have not received that second interview,” Taimoorazy relayed. “The ones that have been interviewed for the second time, they don’t know when they are going to be contacted again to go for the actual process to be accepted to another country.”
According to Taimoorazy, she was told by some of the Christian refugees in Jordan that the UNHCR is not actively reviewing their documents in a timely manner.
“They see Muslims from Iraq and Syria are coming in and flowing out of the country,” Taimoorazy asserted. “What we assess and what they say on the ground is they don’t want for these countries or UNHCR to be perceived that they are giving preferential treatment to the Christians, even though Christians were specifically targeted for their faith. We are not asking for preferential treatment. We are asking for timely processing of their paperwork.”
Of the Christian refugees in Jordan that Taimoorazy spoke with, the ones that did get a second interview with UNHCR were rejected by Australia, she said.
Taimoorazy also spoke with two Iraqi Christians in Jordan who served as translators for the U.S. military during the Iraq War of the 2000s.
“They worked for a company employed by the Americans. They are not even being interviewed [by UNHCR]. Nobody is even looking at their file,” she said. “This woman was crying and told me, ‘I didn’t have to work but I trusted the Americans.'”
“She went to work for the Americans with the hope of being treated well and in the future that her family would be mobilized to America. She was kidnapped and tortured by the Iraqis because of her allegiance to the U.S. She says that the United States is not looking at her file at all.”
That particular translator is not alone.
“A lot of translators and employees are being neglected by the UNHCR and the American government and they are not looking at their paperwork,” Taimoorazy declared. “That is the situation in Jordan. They are devastated truly.”
Taimoorazy plans to make an advocacy trip to the United Kingdom next month to raise awareness about the plight of Iraqi Christians in Jordan.
“I am going to be attending an event in the Parliament and I have a series of meetings set up there to really talk about the entire situation but also what is happening to the people in Jordan,” she said.

25 gennaio 2018

Iraq: nuove elezioni il 12 maggio. Appello della Chiesa caldea al voto

Michele Raviart

Il parlamento di Baghdad ha fissato per il prossimo 12 maggio la data delle prossime elezioni politiche, le prime dopo le decisive vittorie contro il sedicente Stato Islamico. Un “atto democratico” e una “possibilità di cambiamento” per l’Iraq, ha affermato in una nota la Chiesa caldea, che sta affrontando il difficile ritorno dei cristiani dai campi profughi nel Kurdistan iracheno ai villaggi nella Piana di Ninive. Tra i favoriti a ricoprire il ruolo di primo ministro c’è il premier uscente Haider Al-Abadi, mentre tra gli altri candidati spiccano l’ex capo del governo Nouri el-Maliki e l’ex ministro dei trasporti Hali el-Amiri.

Mons. Warduni: al voto con libertà e senza subire pressioni

“Noi vogliamo che le elezioni si svolgano con libertà e per il bene del Paese”,
spiega mons. Shlemon Warduni, vescovo ausiliario di Baghdad dei Caldei, e per questo diciamo ai nostri fedeli di andare a votare “con una coscienza retta” e senza subire pressioni da gruppi di interessi. “Malgrado tutto il male che c’è nella società e le difficoltà che incontriamo”, spiega ancora il presule,  “ciascuno pensa a se stesso” e non al benessere generale. La stessa nota della Chiesa caldea invita a votare candidati “competenti, patriottici, onesti e capaci”, evitando di dare il consenso a persone “inesperte e opportuniste”.
Difficoltà di voto per gli sfollati

Tra i punti più discussi per queste le elezioni, quelli del voto per le decine di migliaia di sfollati che stanno rientrando nelle loro case e la conseguente difficoltà di aggiornare le liste elettorali. Per questo alcuni deputati sunniti e curdi avevano chiesto il rinvio delle consultazioni, bocciato dalla Corte costituzionale irachena.  “Se non riescono a votare tutti non è un bene per il futuro e per la nazione”, afferma mons. Warduni, "ma spero si arrivi ad una soluzione".
Ancora distrutti i villaggi nella Piana di Ninive

Particolarmente critica è la situazione dei cristiani, i cui villaggi all’80% sono ancora distrutti. “Se entrano nelle loro case non possono abitarci, perché sono in cattive condizioni”, dice ancora Warduni, e se non hanno un posto dove vivere, dormire e mangiare”, votare è ancora più difficile.
Ricostruzione e lotta alla corruzione tra le priorità del nuovo governo

La ricostruzione è infatti una delle sfide maggiori che dovrà affrontare il nuovo governo, con una spesa prevista di 100 miliardi di dollari, con l’iraq, che risulta al decimo posto dei Paesi della classifica di Transparency International sulla corruzione. Al governo chiederemo innanzitutto che ci sia “pace con tutti”, a partire dai curdi, e poi “uguaglianza per il popolo senza guardare la religione, la tribù o il partito”, conclude mons. Warduni: “preghiamo per il bene dell’Iraq e per la pace”.

24 gennaio 2018

Dall'orrore il dono della vita. La chiesa irachena salva un bimbo nato dalla violenza dell'ISIS

«La Chiesa irachena ha salvato la vita del piccolo Wisam. La sua nascita è una prova evidente di quanto la presenza cristiana sia importante in queste terre». Così dichiara ad Aiuto alla Chiesa che Soffre una fonte che per motivi di sicurezza preferisce rimanere anonima e che ha raccontato alla Fondazione pontificia un’incredibile storia di amore e speranza accaduta in Iraq.
Nadia, la madre del piccolo poco più che adolescente, è stata rapita e violentata da uomini dello Stato Islamico, come migliaia di bambine, ragazze e donne della Piana di Ninive appartenenti a minoranze etniche e religiose. Durante il periodo in cui la giovane è stata tenuta prigioniera dai jihadisti, che l’hanno ridotta ad una schiava sessuale, è rimasta incinta.
Qualche mese fa Nadia è riuscita a fuggire ed ha fatto ritorno al suo villaggio. Ma gli anziani della sua tribù, scoperto che la ragazza era incinta, hanno deciso che il bambino sarebbe stato ucciso non appena nato, giacché un figlio concepito da un membro dell’Isis non ha diritto di vivere.
Ma Nadia non si è rassegnata e, determinata a proteggere quella piccola vita che cresceva dentro di lei, è riuscita a mettersi in contatto con esponenti della Chiesa locale. Alcune religiose l’hanno accolta e protetta dalle gravi conseguenze che poteva e che può ancora comportare la sua decisione. Una volta nato, le suore si sono prese cura di Wisam nel loro orfanotrofio per un mese, finché il piccolo è stato adottato da una famiglia cristiana.
«Ho tenuto quel bambino tra le braccia ed è stata un’emozione incredibile – dichiara la fonte ad ACS –  Ora la sua nuova famiglia lo farà crescere in un’atmosfera d’amore e di perdono. Ed è quanto noi cristiani stiamo riportando, giorno per giorno, in Iraq e in tutto il Medio Oriente».

Iraq, a maggio le elezioni politiche. Patriarcato caldeo: Il voto, atto democratico

By Asia News

Il Parlamento irakeno, su proposta del Primo ministro Haider al-Abadi, ha fissato per il prossimo 12 maggio la data ufficiale delle elezioni politiche. L’Assemblea non ha tenuto conto delle richieste dei deputati sunniti e curdi, i quali avevano auspicato uno slittamento della consultazione per favorire il rientro di centinaia di migliaia di persone, sfollate dalla guerra contro lo Stato islamico (SI, ex Isis). 
Sulle prossime elezioni politiche, un passaggio chiave per l’Iraq, interviene anche il patriarcato caldeo che parla di “atto democratico” e “possibilità di cambiamento”. I cittadini, spiega in una nota, potranno “scegliere i loro rappresentanti” all’interno degli organi statali ed è per questo necessaria una ampia partecipazione alla consultazione elettorale “in patria e all’estero”. 
Per raggiungere gli obiettivi di “prosperità e progresso” il patriarcato caldeo invita a: aggiornare gli archivi perché tutti abbiamo diritto di voto; esprimere il voto a favore di persone “esperte, patriottiche, oneste e capaci” evitando di affidare il consenso a persone “inesperte e opportuniste”. 
Sulla richiesta di rinvio, nei giorni scorsi si erano espressi anche gli esperti della Corte suprema. I giudici hanno stabilito che lo slittamento è “contraria” ai dettami della Costituzione. 
Il voto della prossima primavera rappresenta un passaggio chiave per delineare il futuro del Paese, dopo tre anni di guerra contro il movimento jihadista. Nel contesto del voto si dovrà scegliere il Primo Ministro, chiamato a guidare la nazione per i prossimi quattro anni. La carica è riservata a uno sciita, comunità maggioritaria in Iraq.
L’attuale premier uscente Abadi, forte della vittoria militare contro l’Isis, si presenta come candidato forte e fra i più autorevoli. Fra le priorità per la prossima legislatura egli ha indicato la lotta contro la corruzione [un problema endemico per il Paese e che ha consumato gli enormi proventi derivanti dalla vendita di petrolio] e l’opera di ricostruzione. 
Fra gli altri candidati alla carica di Primo Ministro vi sono l’ex capo del governo Nouri el-Maliki e l’ex ministro dei Trasporti Hadi el-Amiri
Stime del governo irakeno indicano che serviranno almeno 100 miliardi di dollari per l’opera di ricostruzione di case, edifici, infrastrutture distrutte dalla guerra. Tuttavia, la corruzione resta il principale ostacolo all’attrazione di nuovi investimenti dall’estero; secondo le classifiche di Transparency International ancora oggi l’Iraq è la decima nazione più corrotta al mondo.

Reframing Indigeneity: The Case of Assyrians in Northern Mesopotamia

By American Historical Association
Sargon George Donabed and Daniel Joseph Tower

In June 2014, the so-called Islamic State (IS) gave Christian residents of Iraq’s second-largest city, Mosul (ancient Nineveh), an ultimatum: conversion, expulsion, payment of jizya (a tax on non-Muslims), or death. IS marked Christian houses with the Arabic letter nun for naṣara (a Nazarene), and more than 500,000 people were forced to flee the city. Almost simultaneously, the 35 Assyrian villages along the Khabur River in Syria were attacked; many women and children were taken hostage and held for ransom.
Northern Iraq and the Syrian Jezirah are both currently described as Kurdish-controlled or Kurdish-majority regions. True to form, news reports and official statements from politicians and religious figures highlighted the plight of the region’s Christians, but characterizations of their ethno-cultural heritage did not include the fact that the majority of them were Assyrians, an autochthonous people who have lived for over two millennia as Eastern Christians, and for thousands of years earlier as players in the rise and fall of the great Mesopotamian empires.
The media coverage implied two things. On one hand, these reports did aid the Assyrian community in gaining international sympathy briefly, especially from Western Christians, at least as far as all Christians in the region benefited from the visibility. But on the other, Assyrians were not usually named directly in these reports. Their antiquity and distinctiveness remained invisible, drowned out by the focus on the Arab and Kurdish character of the region.
There are three primary reasons for this denial. First, the Kurds continue to command political and popular attention in the region. Their trials and tribulations are real, but they outshine others because of their geopolitical significance—now largely accepted in such spheres as academia, media, culture, and literature. Second, the Kurds are viewed as the major ethnic group in the region without a homeland. Third, additional communities are either lumped into the conversation about the Kurds or are described as religious minority groups, such as Christians or Yezidi.
This misunderstanding has important consequences, not only for Assyrians but also for human history. Statuary, wall reliefs, churches, and shrines that have been standing for millennia, artifacts of the Assyrians’ ancient past, are also irreplaceable components of world heritage. Before Iraqi forces ousted IS from Mosul last summer, Islamists managed to destroy many Assyrian antiquities. In one video, a spokesperson from the IS media office for the Mosul/Nineveh Province narrates in Arabic the destruction of antiquities dating to the historical period before the prophet Muhammad, or the age of jahiliyyah (ignorance). The forced mass exodus from the city separated Assyrians from the land of their ancestors.
In the wake of this destruction, Assyrians have increased their claims to indigenous status, but being separated from their ancestral lands and communities makes international recognition of their case less probable: rights are harder to assert in this context, especially for a transnational people. Moreover, unending conflict in the homeland makes mass displacement and emigration the only means of survival for a transnational ethnic, religious, and cultural minority. Assyrians are not recognized by any constitution or regime in the region as a distinct ethnocultural group, and when they are mentioned, it is only in terms of their sectarian religious identity.
But Assyrians face obstacles in their claims of indigeneity that are vastly unlike those of indigenous communities in Western countries. Assyrians’ attempts to seek indigenous rights—accommodated under the United Nations Declaration for the Rights of Indigenous Peoples (2007)—are rejected due to regional tensions and rivalries. The United Nations Permanent Forum for Indigenous Issues (UNPFII) provides a platform for elevating indigenous voices to the international arena and for highlighting their culture, history, and claims to land. In 2014, the Assyrian Aid Society (AAS) represented Assyrians at the 13th session of the UNPFII. The organization outlined the indigenous heritage of the Assyrian peoples, the necessity for recognition from their host state, and the overall goal of autonomous governance to help preserve Assyrians’ culture and history within the Iraqi political system.
But the Iraqi response to Assyrian claims to indigenous status—and indeed to all ethno-religious minorities of Iraq who have made such claims—was outright denial. (1)
What’s more, at the 2014 UNPFII session, Assyrians were yet to experience the force of IS attacks on Mosul. Even afterward, when the Yezidi delegation joined forces with the AAS in 2015, the Iraqi position remained unchanged. As has been seen in the past few months with the Kurdish vote for independence, the Iraqi government fears that claims for independence will threaten the nation’s stability. Hence, there are officially no indigenous peoples of Iraq. Formal political channels have made Assyrians’ position ambiguous at best.
This situation finds echoes in the academic realm, where there is little attention to the legitimacy of indigenous claims in the Middle East outside of debate on the Israel/Palestine question. Generally, discourse about indigenous issues works within a European colonial and postcolonial paradigm—that is, case studies of peoples colonized by Europeans dominate the literature, from Native American nations to the Ma’sai of Kenya to the Temuntikans of Costa Rica.
Indigenous peoples such as the Assyrians break the mold of the discussion, because the actions of European colonizers form only one part of the group’s history. Briefly, Assyrians were colonized by the British and French, as were most other Middle Eastern peoples. They had also experienced colonization in a different context at the hands of Western Catholic and Protestant missionaries, who were unable to make much headway in predominantly Muslim communities. Even earlier, Assyrians had experienced multiple waves of Arab/Islamic colonial conquest. They now live amid a burgeoning Kurdish nationalist project. In other words, colonization is not a solely European-oriented matter.
Most of the voices that have addressed indigeneity in the Middle East have arisen from the debate over the Israel/Palestine question. (2)
In academic circles, the leftist argument for a native-Palestinian narrative squares off against an analysis that supports the Jewish claim to the “land of milk and honey.” But leftists often see Israeli subjection of the Palestinian community as Western colonial action, enfolding it into the normative discourse about indigeneity. Similarly, among leftists there is a propensity to see the Palestinians (and interestingly, more recently the Kurds) as victims of oppression but also as heroes—people who actively resist Western colonization. Middle Eastern indigeneity, it seems, doesn’t exist without a Western gaze.
In this way, limiting the concept of Middle Eastern indigeneity not only fails to acknowledge the many indigenous peoples of the region, it also inadvertently legitimizes their persecution. In the Assyrian case, it may be that few know about them or their case because their movement has refrained from violence.
Looking forward, how can Assyrians and other indigenous groups find a place in the Middle East and in their homelands? Recognition and reconciliation require that both parties—the dominant and the indigenous—agree on their roles within the national structure. As long as Middle Eastern states do not recognize Assyrians and other peoples as indigenous, the process cannot commence; first peoples will be unable to negotiate in the political forum as long as their host countries monopolize their rights.
The configuration of the current Middle East does not allow for the cathartic opportunity of reconciliation, leaving acts of past aggression, massacre, and even genocide unrecognized and erased from history. Assyrians lack official recognition of their ethnocultural existence in all of the Middle Eastern states containing portions of their homeland: Iran, Iraq, Syria, and Turkey. This restricts Assyrians’ rights. Without recognition, no case can be made.
Due to internal conflict and the continued Western/Eurocentric gaze, the Middle East has been seen as an exceptional case and is thus absent from many discussions of indigeneity. This lacuna brings into question our own scholarly analyses, as well as our very integrity. As scholars, we must extend to the histories of Middle Eastern indigenous peoples the same urgency we bring to more normative cases—of communities resisting European colonization—by accepting that there is more than one historical framework through which to see indigenous peoples.

Notes
1. The Iraqi delegation’s official position is that Iraq does not have an indigenous people; instead, it has various ethno-religious minorities. This position, however, stands in contrast to the definition of “indigenous peoples” set out in the United Nations Declaration of Rights of Indigenous Peoples.
2. There has been some discussion of Armenians’ claims, including to land in Turkey, but this has been largely a legal response to genocidal acts and mass expulsions, separate from any rubric specifically concerning “indigenous” rights.


Sargon George Donabed is associate professor of history at Roger Williams University. He is the author of Reforging a Forgotten History: Iraq and the Assyrians in the Twentieth Century.
Daniel Joseph Tower is a PhD candidate in the Department of Studies in Religion at the University of Sydney. He is the co-editor of Religious Categories and the Construction of the Indigenous.

18 gennaio 2018

HB Patriarch Sako Sent a Thank you Letter to Cardinal Mar George Alencherry the Major Archbishop of Syro-Malabar Church in India


HB Patriarch Sako Sent a Thank you Letter to Cardinal Mar George Alencherry the Major Archbishop of Syro-Malabar Church in India

Beatitude, Eminence  
Words are not enough to express thanks and gratefulness on behalf of myself and my brother bishops who accompanied me during this visit:
Mar Yousif Toma Mirkis, Mar Habib Al-Nawfaly and Mar Basilios Yaldo. It was really a great honor to participate in the Silver Jubilee celebration of the promotion of Malabar Church to a Major Archbishop, and  an opportunity to meet with your Beatitude and members of the Holy Synod to exchange ideas, enrich and broaden our minds in a way that takes us back to our historical bonds, tradition, and common “Oriental” roots.
Despite the shortness of this trip (10 to 16 January 2018), we think it has opened the door widely for cooperation between St. Thomas Christians and the Chaldean Church; encouraged us to renew the spiritual and liturgical heritage that we share; as well as focusing on the formation of our clergy.
Beatitude, Eminence
We are really proud of the Apostolic Malabar Church, in terms of the progress, prosperity and its presence in many countries around the world following the steps of St. Thomas, the Apostle and his brave confession of faith “My Lord and my God:  “Mar Wa Allah”. This significant profession, following the resurrection of Jesus, empowers us with a distinctive authentic, deep and spontaneous perception, to work enthusiastically in spreading the Good News, same as St. Thomas did, by travelling long distances in order to share the love of Jesus Christ with others.
Beatitude, Eminence
We look forward to seeing you in Iraq, in order to hit the ground running and open the horizons up for a better future for both pastoral missions. I believe it is God’s will to initiate this relationship, particularly at this time, that the Lord has blessed your Church with great numbers of priests, monks and nuns, to assist our persecuted Chaldean Church, which is suffering from the shortage in clergy and nuns, due to successive wars and emigration. Thank God for His blessings, it seems like an echo of the past when our Church supported your Church by sending bishops, priests and monks until the sixteenth century.
Thank you again with best regards,
+ Louis Raphael Sako
Patriarch of Chaldeans

Baghdadhope
16 gennaio 2018

17 gennaio 2018

Te Deum laudamus per chi ha perso tutto per la fede

By Tempi
Amel Nona

Anticipiamo il Te Deum scritto per il primo numero del mensile Tempi da Amel Nona, arcivescovo dell’eparchia caldea di San Tommaso Apostolo a Sydney. È stato arcivescovo di Mosul, in Iraq, fino all’estate del 2014, quando le milizie terroriste dello Stato islamico hanno invaso la città e cacciato tutti i cristiani.


Te Deum laudamus per la liberazione delle città e dei villaggi cristiani in Iraq dal controllo dei jihadisti. È stata davvero una buona notizia quella che mi ha informato che la terra dove i cristiani hanno vissuto per duemila anni è stata liberata. Ora i cristiani che sono rimasti in Iraq avranno la possibilità di tornare alle loro chiese e alle loro proprietà. Siamo stati felici quando abbiamo visto l’Isis sconfitto in Iraq e Siria, perché nessuno vuole vivere nel terrore. Questa è la natura umana. Riflettendo sulla liberazione, sulla gioia dei cristiani in particolare, ma anche sull’influenza che questi fatti hanno avuto su tanta gente lontana da quelle terre, mi chiedo – vivendo ormai in una società occidentale – se la fede cristiana abbia bisogno sempre di sfide così grandi per restare attiva e viva in mezzo alla gente.
Il dolore della Mesopotamia
La difficile situazione dei cristiani in Iraq e Siria, soprattutto la loro persecuzione in quanto seguaci di Gesù, ha spinto tanta gente a tornare a pensare alla fede e all’importanza di vivere da cristiani nelle nostre società moderne. Ciò che i cristiani hanno sofferto in Mesopotamia ha scosso tante persone che avevano ormai quasi abbandonato la fede o che erano arrivate a un livello per cui la vita può andare avanti anche senza Gesù Cristo.
Molte società “cristiane” sono arrivate a rinchiudere la fede nei limiti della Messa domenicale. Sono formate ormai da cristiani passivi, inattivi, nel senso che pensano solo a che cosa possono prendere dalla fede senza sentire la necessità della missione, di portare al mondo questo credo. La sofferenza e la persecuzione dei fedeli in Medio Oriente, insieme alla paura, sono stati fattori fondamentali nel far riconsiderare la fede a queste società. L’Isis ha scosso tanti uomini e donne, che hanno cominciato a domandarsi perché altri cristiani, che non godono neanche della prosperità del mondo moderno, hanno scelto di lasciare tutto ciò che possedevano pur di non abbandonare la fede.
La disponibilità a perdere tutto per la fede non è scontata e non è una scelta facile nella cultura di oggi. Eppure i cristiani iracheni l’hanno fatta, scuotendo dalle fondamenta il mondo cristiano moderno. Molti fedeli nelle società occidentali ora cominciano a sentire la necessità di cambiare approccio verso la fede. La sofferenza di una comunità cristiana, dunque, ha creato una situazione positiva in altre comunità. Questa situazione dolorosa ha stimolato tanti fedeli a ripensare alla fede e al modo più adeguato per viverla.
L’Isis è stato appena sconfitto e io mi chiedo: che cosa succederà tra un po’ di tempo? Siamo destinati a tornare alla “normalità” di una fede chiusa nelle istituzioni e limitata alla presenza rituale? Riflettendo su questo punto mi viene in mente un’altra domanda: le sfide forti sono necessarie per la fede? La nostra fede ha bisogno di situazioni difficili per essere stimolata? Che cosa succederà alla fede quando tutti gli aspetti principali della vita, in generale, andranno bene per l’uomo? Sicuramente ci troviamo davanti a un dilemma perché se da un lato le difficoltà allontanano da Dio molte persone, tanti altri ritornano alla fede quando nelle loro vite si presenta un bisogno o una paura. E io in questo Te Deum non sono in grado di sviscerare tutte le possibilità, ma voglio ringraziare Dio perché mi ha messo nelle condizioni di porre queste riflessioni.
Combattere un’ideologia
Possiamo dire, in generale, che fino a quando esisterà l’uomo ci saranno sempre difficoltà nella sua vita ed essa sarà sempre alla ricerca della “completezza”. Non possiamo mai dire di essere in una situazione in cui è tutto perfetto. Se guardiamo anche solo all’Iraq, non possiamo dire che l’Isis sia stato sconfitto al 100 per cento perché non siamo davanti soltanto a un gruppo militante, ma a un’ideologia che bisogna combattere in molti modi: garantendo pace e diritti umani a tutti, aiutando il paese a svilupparsi perché tutti i cittadini possano vivere in modo dignitoso e perché ci sia libertà di annunciare la novità del Vangelo a voce alta in ogni situazione.
Dobbiamo però anche cambiare la nostra idea di perfezione. Noi pensiamo sempre di non essere perfetti, ma in cammino verso una perfezione che si trova sempre lontana da noi e alla quale le nostre azioni buone ci avvicinano. La realtà cristiana però non è questa: dal momento in cui facciamo la prima comunione e siamo uniti al corpo del Signore, noi diventiamo perfetti. Gesù Cristo, l’uomo perfetto che racchiude in sé ogni perfezione, prende dimora in noi e noi, nel cammino della nostra vita tramite le nostre azioni, irradiamo il mondo di questa perfezione. Ogni atto buono è una dimostrazione della perfezione di Cristo che sta in noi.
Un compito grandissimo
Quindi noi non siamo in cammino verso una perfezione lontana, ma siamo sempre in cammino per mostrare la perfezione che abbiamo già dentro di noi e che ogni volta si rinnova nella santa Messa.
Se noi cristiani moderni prendiamo sul serio questa riflessione sulla fede che è stata fatta già dai padri della Chiesa, smetteremo di sentirci sempre deboli e di cercare di costruire in modo egoistico la nostra perfezione. Al contrario, capiremo di essere depositari di un compito grandissimo: mostrare a tutto il mondo e in ogni aspetto della vita che cos’è la perfezione umana, che già esiste nei nostri corpi e nelle nostre anime. Mi domando quindi in conclusione: se guadagneremo questa concezione cristiana della perfezione, avremo ancora bisogno delle grandi difficoltà per vivere la fede? Te Deum laudamus perché ci dai la possibilità di agire e pensare come ci hai insegnato.

Iraq, il ritorno a casa di Helda: non abbiamo mai smesso di credere nell'aiuto di Dio

By Il Sussidiario
Paolo Vites

"Ci sentivamo umiliati a ricevere gli aiuti, il cibo, i vestiti, perché non avevamo mai pensato che sarebbe arrivato il giorno in cui saremmo stati ridotti come dei barboni, oppressi senza forze e potere".
Così racconta con grande lucidità Helda Khalid Jacob Hindi una bambina di soli 10 anni che solo adesso è potuta tornare a casa, nel villaggio di Qaraqosh nella piana di Ninive in Iraq, da dove lei e la sua famiglia erano stati costretti a scappare nell'agosto 2014 all'arrivo dell'Isis. Ero terrorizzata all'idea di non rivedere mai più i miei amici, la mia città, la mia scuola, racconta. Adesso però ha ritrovato la sua scuola e i suoi vecchi amici: "Durante l'esilio avevamo solo Dio e non abbiamo mai cessato di credere nella sua pietà per tutti coloro che soffrono in Iraq e nel mondo. I miei familiari non hanno mai smesso di credere che Dio fosse sempre vicino a noi. Per quanto possa vedere del mio passato, Dio mi è sempre stato vicino".
Del suo futuro dice che non sa bene cosa fare: vorrebbe rimanere in Iraq perché è la sua casa, ma ha ancora paura che i cristiani possano venire perseguitati: "Ho un messaggio per le nazioni occidentali: aiutate per quanto possibile i cristiani perché in Iraq sono vicini all'estinzione. Abbiate compassione per noi e sarete ricompensati in cielo". Purtroppo Helda non conosce la realtà della politica internazionale, dove della sofferenza delle minoranze non interessa a nessuno, scambiate come pedine nel gioco degli interessi di ogni singolo paese e nlla loro corsa al potere. Il suo sogno? "Diventare una dentista per servire la mia comunità, il mio paese, dovunque dovessi andare a vivere" (testimonianza raccolta da Ragheb Elias Karash dell'Aiuto alla Chiesa che soffre degli Stati Uniti).

Zenit
December 12, 2017
A 10-Year-Old Dares to Dream Again

16 gennaio 2018

Si rafforzano i legami tra la chiesa caldea e la chiesa siro malabarese

By Baghdadhope*

E' terminata ieri la visita del Patriarca caldeo Mar Louis Raphael I Sako in India.
Il Patriarca è arrivato nel continente indiano il giorno 11 gennaio accompagnato dal Vicario Patriarcale Mons. Basel Yaldo, dall'Arcivescovo di Kirkuk, Mons. Thomas Y. Mirkis e dal Vescovo di Bassora Mons. Habib Al Naufali che, già sofferente per l'infiammazione di alcune vertebre cervicali, ha dovuto essere ricoverato al suo arrivo in una struttura ospedaliera.
L'invito a visitare alcune delle diocesi della chiesa cattolica siro-malabarese in occasione del 25° anniversario della sua elevazione a sede Arcivescovile Maggiore (avvenuta nel dicembre 1992 per volere di Papa Giovanni Paolo II) è stato rivolto al Patriarca Sako da parte del cardinale George Alencherry, presidente del Sinodo della chiesa siro-malabarese.
Nel discorso di apertura della cerimonia per il festeggiamento dell'anniversario che è stata presieduta dal Nunzio apostolico in India, Mons. Giambattista Diquattro, Mar Sako ha sottolineato i legami storici e spirituali delle due chiese che affondano nella comune predicazione di San Tommaso Apostolo esplicitandosi nel rito comune, (siriaco orientale) e la necessità della cooperazione nella modernizzazione dei riti e nella ricerca dei valori che le legano. Ha inoltre chiesto l'aiuto della chiesa siro malabarese, che non soffre di mancanza di vocazioni, nell'inviare sacerdoti e suore in sostegno dei fedeli caldei in Iraq invitando una delegazione ecclesiastica a visitare il paese così da approfondirne la conoscenza. Da parte sua il Cardinale Alencherry ha promesso aiuti finanziari per la ricostruzione dei villaggi caldei.
Intervista con George Alencherry, arcivescovo maggiore della Chiesa siro-malabarese
30 giorni 


India: al via il 25° Sinodo della Chiesa siro-malabarese
Radiovaticana
 

A Malta mostra di oggetti sacri vandalizzati dall’ISIS nelle Chiese Cattoliche

By Paese Italia Press
Fra Mario Attard OFM Cap

La fondazione Internazionale Aiuto alla Chiesa che Soffre (Aid to Church in Need ACN) ha recentemente trasferito a Malta oggetti sacri provenienti dalle Chiese Cattolice in Iraq gravemente danneggiati dai terroristi dell’Isis. L’organizzazione del terrore che ha perseguitato migliaia di Cristiani.
La fondazione ha dichiarato che gli oggetti saranno esposti per sensibilizzare la tragica sorte dei Cristiani che subiscono persecuzioni in varie parti del mondo a causa della loro fede.
Tra i tanti oggetti sacri in mostra attualmente a Malta si trovano crocifissi, calici e ostensori tutti distrutti o gravemente danneggiati. Lo stato degli oggetti religiosi vandalizzati  evidenzia  la crudeltà e la massima ferocia della persecuzione contro i Cristiani in Iraq e in  Siria. In questi paesi molte chiese sono bersaglio dell’odio degli estremisti dell’ISIS contro la fede Cristiana.
Il vescovo di Mosul in Iraq ha dichiarato che le sue chiese sono state vandalizzate gravemente dall’ISIS. Ed è questo vescovo che ha dato il via perchè gli oggetti fossero esposti a Malta. Lo scopo di questa missione è sensibilizzare il popolo locale all’esperienza di sofferenza che i nostri fratelli e sorelle Cristiani subiscono in Mosul praticamente ogni giorno.
Il rappresentante dell’Aiuto alla Chiesa che Soffre a Malta, Stephen Axisa,ha sottolineato che migliaia di Cristiani vivono in terrore in estrema povertà, proprio a causa dei terroristi. Axisa ha detto che la fondazione riconosciuta dal Vaticano e composta da altri Cristiani, sta aiutando quest’ultimi che sono perseguitati. Axisa si è espresso così: “In Iraq e in Siria, c’è urgente  necessità di assistere coloro che hanno bisogno di accoglienza e le scuole,  procurando il cibo quotidiano. Noi provvediamo a fornire circa mille sacchetti per giorno di alimenti”.
Ad ospitare la mostra, è la Chiesa di Gesù Boun Pastore a Balzan.
Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS) è una fondazione Pontificia diretta all’assistenza della Chiesa ovunque essa sia perseguita, oppressa o necessiti di risorse. ACS centra l’attenzione al  supporto verso le chiese locali, particolarmente in quei Paesi laddove la Chiesa non sia in grado di provvedere al proprio sostentamento o, se capace di farlo, non senza grandi difficoltà.
Nella messa mattutina nella cappella di Casa Santa Marta di lunedì, 30 gennaio del 2017 Papa Francesco ha celebrato la funzione religiosa  proprio per “i martiri di oggi”, cioè per i cristiani perseguitati e in carcere, per le Chiese che non hanno libertà, con un pensiero particolare a quelle più piccole. In quella messa il Papa ha sottolineato che sono proprio i martiri a sostenere e portare avanti la Chiesa. E anche se “i media non lo dicono, perché non fa notizia”, attualmente “tanti cristiani nel mondo sono beati perché perseguitati, insultati, carcerati soltanto per aver portato una croce o per confessare Gesù Cristo”.
E noi, che ci sentiamo sfortunati e ci lamentiamo “se ci manca qualcosa”, perchè non iniziamo ad imparare a pensare “a questi fratelli e sorelle che oggi, in numero più grande dei primi secoli, soffrono il martirio”?

15 gennaio 2018

Baghdad, doppio attentato provoca 26 morti e 90 feriti. Mons. Warduni: Atti destabilizzanti


È di almeno 26 morti il bilancio, ancora provvisorio, del doppio attentato suicida che ha colpito questa mattina il centro di Baghdad. La maggior parte delle vittime sono lavoratori giornalieri, in attesa di chiamate per un incarico. Si tratta del secondo attentato sanguinoso in soli tre giorni che colpisce la capitale dell’Iraq. 
Abdel Ghani al-Saadi, medico e direttore generale del Dipartimento sanitario per il settore orientale di Baghdad, riferisce di “26 morti e 90 feriti”, alcuni dei quali in gravi condizioni. 
Il generale Saad Maan, portavoce del comando congiunto che coordina le operazioni di polizia ed esercito, parla di “16 morti accertati”. “Due kamikaze - aggiunge l’alto ufficiale - si sono fatti esplodere sulla piazza di al-Tayaran, nel centro di Baghdad”. 
Interpellato da AsiaNews mons. Shlemon Audish Warduni, vescovo ausiliare di Baghdad e braccio destro del patriarca caldeo, conferma che “la situazione non è del tutto calma”, anche se nell’ultimo periodo “il clima era migliorato”. A creare instabilità e tensione, aggiunge, vi sono “il bilancio della nazione da approvare e sul quale manca l’accordo e poi le prossime elezioni” parlamentari in programma a maggio. “C’è gente - conclude - che vuole mescolare le questioni e fomentare la tensione, compiendo atti contrari alla nazione. Sono attacchi che fanno male, mentre noi preghiamo per la pace e perché il mondo la smetta di vendere le armi”. 
Il luogo teatro dell’attentato è un importante crocevia di affari e commerci nel centro della capitale irakena. Esso è divenuto anche un punto di incontro e reclutamento per i lavoratori giornalieri del settore edile, che si piazzano nell’area fin dalle prime ore del mattino nella speranza di poter trovare un impiego. La zona è stata teatro di diversi attacchi in passato, spesso mortali. 
Testimoni oculari raccontano di numerose ambulanze accorse sulla scena dell’attentato, nel tentativo di prestare soccorso alle decine di ferite. Intanto le forze di sicurezza hanno circondando l’area dell’attacco kamikaze, che non è stato ancora rivendicato in via ufficiale. 
Baghdad ha registrato attacchi pressoché quotidiano dall’estate del 2014, in concomitanza con l’ascesa delle milizie dello Stato islamico (SI, ex Isis), che hanno conquistato quasi la metà del territorio. L’offensiva lanciata dall’alleanza arabo-curda, sostenuta da una coalizione internazionale a guida statunitense, ha permesso di sconfiggere sul piano militare i jihadisti e limitato il numero di attentati; tuttavia, restano sul terreno alcune sacche di resistenza o cellule isolate pronte a colpire come avvenuto questa mattina. 
In una nota il ministero irakeno degli Interni sottolinea che il bilancio è “destinato a salire” per il probabile ritrovamento di ulteriori cadaveri nel contesto delle operazioni di soccorso e pulizia dell’area dell’attacco. Nel fine settimana un attentatore suicida si è fatto esplodere nei pressi di un checkpoint nella zona nord della capitale, provocando cinque vittime.

12 gennaio 2018

Il leader curdo Barzani dal Papa dopo il referendum sull'indipendenza

By Il Messaggero
Franca Giansoldati

Photo by Rudaw.net
Missione in Vaticano del premier curdo, Nechirvan Barzani che stamattina ha incontrato Papa Francesco per un colloquio privato che arriva a quattro mesi dal referendum sull'indipendenza della regione del curdistan iracheno. L'ultima volta che Barzani era transitato Oltretevere per sondare il terreno per un supporto indipendentista era nel 2015.
Il corrispondente di Rudaw, il network curdo, ha riferito che il Papa è sembrato piuttosto preoccupato per la situazione in Iraq, soprattutto in merito al quadro che riguarda i rifugiati costretti a fuggire durante il conflitto con l'Isis. Secondo dati non ufficiali i cristiani iracheni di diverse confessioni coinvolti in questi anni nelle migrazioni forzate per sfuggire al Califfato sarebbero almeno 400 mila. Di questi 100 mila sono stati accolti nella regione curda in attesa di tornare a Baghdad o a Erbil. Il Vaticano ha sempre sostenuto il ritorno dei cristiani nei loro luoghi di origine.

Il nodo politico principale del futuro della regione curda è naturalmente legato al referendum che si è svolto il 25 settembre scorso. Praticamente un plebiscito che dava mandato al governo curdo di avviare negoziati con il governo iracheno per la creazione di uno stato. L'area autonoma dell’Iraq curdo attualmente è già ampiamente indipendente dal 1991.

L'ipotesi della secessione non è ben vista a livello internazionale perchè destabilizzerebbe ulteriormente l'area. La Turchia e l’Iraq hanno condotto esercitazioni militari vicino ai confini del Kurdistan iracheno, dichiarando recentemente che faranno tutto il possibile per boicottare l'aspirazione indipendentista.

Nel mondo si contano circa trenta milioni di curdi sparsi tra Turchia, Siria, Iraq e Iran. Il voto referendario non includeva quelli che vivono in Turchia (che sono la netta maggioranza) o che vivono in Iraq e Siria. 

ACS ai governi dell'Unione Europea: «Per l'Iraq fate presto!»

Foto Aiuto alla Chiesa che Soffre
By Aiuto alla Chiesa che Soffre

Aiuto alla Chiesa che Soffre manifesta vivo apprezzamento per lo stanziamento di almeno 75 milioni di dollari da parte degli Stati Uniti d’America per agevolare il rientro degli sfollati interni, prevalentemente cristiani e yazidi, nella Piana di Ninive e nella città di Sinjar, secondo quanto affermato dall’ambasciatore USA in Iraq Douglas Seelman in vista della Conferenza internazionale per la ricostruzione dell'Iraq in programma a Kuwait City a partire dal prossimo 12 febbraio.
La fondazione pontificia ha auspicato un analogo impegno dei governi nazionali incontrando decine di ambasciatori accreditati presso la Santa Sede nel corso di una conferenza internazionale sulla Piana di Ninive svoltasi a Roma a fine settembre 2017, e alla quale ha partecipato anche il Segretario di Stato vaticano Card. Pietro Parolin. Si tratta di un impegno che ACS ritiene sia dovuto ad una popolazione vittima di un genocidio che l’ONU non ha ancora avuto il coraggio di riconoscere formalmente.
Aiuto alla Chiesa che Soffre dal 2011 ha finanziato progetti per l’Iraq per un totale di circa 35,7 milioni di euro, e in questi mesi sta procedendo nella raccolta fondi per il Progetto di ricostruzione di 13.000 case danneggiate o distrutte dall’ISIS nei villaggi cristiani della Piana di Ninive. Il costo stimato di questo “piano Marshall” per l’Iraq è di oltre 250 milioni di dollari. Il sostegno alla minoranza cristiana irachena rappresenta un seme di speranza per popolazioni flagellate dal terrorismo di matrice islamica, ma non solo. La ricostruzione del tessuto sociale della Piana di Ninive costituirà anche un pacifico argine contro la diffusione dell’ideologia politico-religiosa dell’estremismo, niente affatto debellata nonostante la sconfitta militare dell’ISIS.
ACS è quindi convinta dell’importanza strategica della ricostruzione di quest’area dell’Iraq per garantire la stabilizzazione del Medio Oriente nel suo complesso. Ora, dopo la decisione statunitense, auspica un maggiore coinvolgimento anche delle nazioni dell’Unione Europea, e lo fa con un solo, pressante, appello: per l’Iraq fate presto!

11 gennaio 2018

Dominican sisters help educate Iraqi children returning home

By Catholic News Agency

When Iraqi residents fled their homes during the Islamic State invasion, they left behind their houses, neighbors, and day-to-day lives.
For the children who fled, leaving their home behind also meant an interruption in their education – in some cases for months or years.
While some refugee camps offer classes for children, challenges abound and students often fall behind.
Now, a group of Dominican sisters in one Iraqi town is working to help educate displaced children as their families return to their homes and work to rebuild their lives. 
With the support of Catholic charity Aid to the Church in Need in Spain, the Dominican Sisters of Saint Catherine of Sienna were able to restore their convent, which had been destroyed by the Islamic State in Iraq. Today, they offer classes to hundreds of children who had been displaced by the war.
“We try to help the children, giving them peace: in our convent we offer them a safe place,” Sister Ilham told ACN in late December. Despite the expulsion of ISIS, security in the area remains unstable.  
In May 2017, ACN funded the restoration of Our Lady of the Rosary Convent with a grant of $54,000. Located in Teleskuf, north of the plain of Nineveh, the convent is just over 20 miles outside of Mosul.
The sisters worked 12-hour days to prepare the convent to welcome the children, Sister Ilham said.
They provide daycare for children between three and five years old. In the mornings, they teach about 150 children between the ages of six and 12. In the evenings, they teach students 12 years of age and older.
Sister Ilham, 57, was working for a church in Mosul when the rapid advance of the Islamic State forced her and her community to flee. However, after the fall of the terrorist group, she returned to the area and today is helping those displaced from Teleskuf.
“None of us wanted to leave where we come from, but as the attacks continued, we had to flee to save our lives,” she said. 
“In 2016 some 6,000 people had to leave Telskuf. When I returned to this area, all the houses were abandoned and many of them destroyed,” she continued. “In Teleskuf all that is left of many of buildings are the ruins. The school and the children's home are destroyed, the doors of the convent were forced open and the sisters' home was sacked.”
In addition to teaching at the convent, the sisters visit the members of the Christian community in their homes, teach catechism to the children, and prepare them for their First Communion.
Once the local school is rebuilt, the children will no longer need to attend the convent classes. In the meantime, the sisters hope they can help the children from falling too far behind in their studies.
“Before the Islamic State invasion, there were five sisters in the convent, while now there are only two of us. Fortunately, we are will soon receive reinforcements,” Sister Ilham said.
In addition to helping fund the convent reconstruction, Aid to the Church in Need is currently helping rebuild 13,000 houses and more than 300 church properties destroyed by the Islamic State in Iraq.

This article was originally published by our sister agency, ACI Prensa. It has been translated and adapted by CNA.

Gli USA stanziano fondi ad hoc per la ricostruzione di città e villaggi della provincia di Ninive

By Fides

Gli Stati Uniti hanno deciso di stanziare almeno 75 milioni di dollari per sostenere la ricostruzione di villaggi e infrastrutture delle regioni liberate dal controllo dello Stato islamico, e favorire il ritorno dei profughi – in gran parte cristiani e yazidi – fuggiti dalla Piana di Ninive e dalla città di Sinjar.
Lo ha confermato, in una conversazione con ankawa.com, il diplomatico statunitense Douglas Seelman, ambasciatore USA in Iraq. Il rappresentante USA ha ribadito l'intenzione del suo Paese di giocare un ruolo di primo piano nella Conferenza internazionale per la ricostruzione dell'Iraq, in programma a Kuwait City a partire dal prossimo 12 febbraio, sottolineando che in tale cornice il sostegno ai rifugiati fuggiti da Sinjar e dalla Piana di Ninive rappresenta una priorità per l'attuale governo di Washington.
Mahdi al Allaq, segretario generale del Consiglio dei ministri iracheno, ha preannunciato che la ricostruzione delle aree dell'Iraq riconquistate dopo gli anni del dominio jihadista richiedà finanziamenti per almeno 100 miliardi di dollari. Alla Conferenza internazionale in programma a Kuwait City, che dovrebbe durare almeno tre giorni, sono attesi i rappresentanti della Banca Mondiale e di settanta Paesi.