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30 aprile 2016

Il martirio delle Chiese d'Oriente, il mondo tace

By Avvenire
Camille Eid
 
Il martirio come esperienza quotidiana. Da evento piuttosto discontinuo e circoscritto a situazioni individuali, l’estrema testimonianza del sangue è tornata a essere un fenomeno di massa con la nuova vampata di terrorismo che investe buona parte del Medio Oriente, allargando i suoi tentacoli verso diverse zone dell’Asia e dell’Africa. Come definire diversamente la decapitazione di decine di fedeli copti in Libia, l’assassinio di suore missionarie nello Yemen, il rapimento di vescovi sacerdoti e suore in Siria, la cacciata di migliaia di famiglie dalla Piana di Ninive, la presa di ostaggi nella Valle del Khabur, l’imposizione della jizya ai fedeli di al-Qaryatain, l’incendio di decine di chiese in Egitto, la distruzione e rimozione di croci e altri simboli cristiani a Mosul e Raqqa?
Certamente, il martirio non è una “novità” per le Chiese d’Oriente. Il calendario copto, detto Calendario dei Martiri, fa partire la sua era il 29 agosto del 284 a ricordo di coloro che morirono sotto Diocleziano, mentre la memoria collettiva di tanti altre Chiese orientali è costellata di tragedie difficili da cancellare, non ultime i due genocidi di cui si è celebrato il centenario proprio l’anno scorso: il Genocidio armeno e “l’Anno della Spada” che ha cancellato la presenza siriaca e assira dal sud dell’Anatolia. Le avvisaglie dell’ultima fiammata di violenza anticristiana si erano mani-festate, dieci anni fa, con l’assassinio di due religiosi italiani: don Andrea Santoro, sacerdote fidei donum a Trebisonda, e suor Leonella Sgorbati a Mogadiscio, morta pronunciando per tre volte la parola «perdono» verso il suo uccisore. Il 17 settembre 2006, giorno del suo martirio, il Vangelo di Marco riportava le parole di Gesù: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo la salverà».
Da allora, il martirologio cristiano si è costantemente arricchito di nuovi nomi. Anzitutto in Iraq, dove la scure della violenza ha unito le diverse denominazioni cristiane in un autentico “ecumenismo del sangue”. Della lunga schiera di martiri fanno, infatti, parte sacerdoti siro-ortodossi come Boulos Iskander Behnam, pastori protestanti come Mundher Aldayr, prelati e religiosi caldei come monsignor Paulos Faraj Rahho e il padre Ragheed Ganni, senza contare le centinaia di fedeli che hanno perso la vita in oltre ottanta attentati contro luoghi di culto cristiani nel Paese. Le successive agitazioni in Egitto e la guerra in Libia e Siria hanno poi contribuito a estendere ampiamente il raggio delle persecuzioni. La Chiesa copta ha così deciso di inserire nel proprio Sinassario – equivale a una loro canonizzazione come martiri – i 21 cristiani sgozzati dal Daesh nel febbraio 2015 sulle coste di Sirte. «Icone, manoscritti e storici ci hanno testimoniato le gesta dei martiri fin dall’alba del cristianesimo, aveva dichiarato un vescovo copto-ortodosso, ma questo è il più grande caso di martirio cristiano del nostro tempo».
In Siria, le testimonianze di fedeli uccisi “in odium fidei” non si contano più. Come quella di padre Frans van der Lugt, gesuita olandese, ucciso a Homs il 7 aprile 2014. Dei suoi 76 anni, ne aveva trascorsi una cinquantina in Siria. «Sono l’unico sacerdote rimasto», aveva detto in un’intervista. «Qui c’erano decine di migliaia di cristiani, ora appena 66. Come potrei lasciarli soli?». Ma ci sono anche le testimonianze dei “martiri viventi”. Come Shamiran, una donna assira di 60 anni, prelevata con altri 230 cristiani del Khabur nel febbraio 2015 e rimasta per sette mesi tra le mani dei jihadisti. «In carcere – racconta Shamiran – abbiamo improvvisato una celebrazione della Pasqua. Abbiamo prima cantato degli inni, poi alla comunione, in mancanza di un prete e del vino, ci siamo scambiati a vicenda del pane imbevuto di acqua». Il martirio un déjà vu per i cristiani orientali, dicevamo. Eppure, quel che avviene oggi in Medio Oriente ha dell’assurdo perché, sebbene succeda “in diretta” davanti a noi, ostentato con orgoglio dalla macchina propagandistica dei carnefici, fa fatica a risvegliare l’Occidente dalla sua distrazione.
Anche per questo ci voleva un gesto forte come quello di ieri a Roma. Nessuna parte del mondo, in fondo, può dirsi esonerata dalla sequela di Gesù fino in fondo. L’ha detto papa Francesco, due settimane fa, ricordando nell’udienza concessa al Pontificio Collegio scozzese di Roma come «oggi i cristiani sono chiamati a imitare il coraggio dei martiri in una cultura spesso ostile al Vangelo». Nella prefazione di un libro appena uscito in Francia papa Bergoglio ha così ricordato i sette monaci trappisti sequestrati e uccisi in Algeria nel 1996: «Non sono fuggiti di fronte alla violenza: l’hanno combattuta con le armi dell’amore, dell’accoglienza fraterna, della preghiera comunitaria. I fratelli cistercensi dell’Atlas hanno reso testimonianza con il loro sangue.
Nella loro carne, hanno vinto l’odio nel giorno della grande prova. Ma è con l’intera loro vita che sono testimoni (martiri) dell’amore».
Un campanello d’allarme l’aveva suonato nel febbraio 2015 il cardinale Angelo Scola invitando gli europei a prendere il fenomeno martirio «molto sul serio» alla luce di quanto stava accadendo nell’islam. «Non è detto – aveva precisato l’arcivescovo di Milano – che il martirio del sangue ci sarà evitato come abbiamo pensato fino a dieci anni fa quando credevamo che la cosa non ci avrebbe riguardato».

Lo Stato Islamico a Mosul: Il racconto di una famiglia irachena

 
Kamal Eliah Suleyman e Fatim Jounis Majid sono una coppia cristiana di Mosul (lui cattolico, lei ortodossa, i figli prendono la confessione religiosa dal padre), che oggi vive a Ainkawa, periferia nord di Erbil, con le figlie Diana e Malak, dove praticamente l'intera comunità cristiana irachena si è rifugiata dopo gli eventi degli ultimi due anni. La loro famiglia ha radici profonde a Mosul, che affondano in un lontano passato retrocedendo di generazione in generazione. La condizione economica benestante da cui provengono ha loro permesso di evitare i campi profughi della cittadina cristiana, e affittare un appartamento. Lo zio di Kamal è stato ucciso nel 1979 dal partito Baath nel villaggio di Soria, mentre il fratello è stato ucciso a Mosul, nel 2007, da Al-Qaeda in Iraq.
La loro testimonianza, personale e soggettiva come tutte quelle che stiamo raccogliendo, offre uno sguardo sui conflitti socio-religiosi di questi anni in una delle città più grandi, antiche e importanti del medio oriente, prima e dopo l'invasione Usa, lo sprofondamento settario dell'Iraq, l'instaurazione dello stato islamico.
Siete una famiglia araba, irachena e cristiana, che ha abitato a Mosul da generazioni. Come ricordate i tempi di Saddam Hussein?

Bei tempi. Era un buon governo, non c'erano problemi con i musulmani, la vita si svolgeva regolarmente. C'erano problemi economici dovuti all'embargo, ma era normale, ed erano problemi uguali per tutti. Guadagnavamo solamente uno o due dollari al mese, questo era il reddito medio, ma con i prezzi dell'epoca ci si viveva bene. Mosul era anche una città molto economica, i prezzi erano bassi, ciononostante le merci e il cibo erano di buona qualità e c'era la piena occupazione. Una delle città migliori in Iraq.

Come avete vissuto l'invasione statunitense del 2003?

Fu uno schock per tutti, anzitutto perché non si aveva alcuna idea di cosa sarebbe accaduto a quel punto. Ciononostante, dopo un anno di invasione le cose stavano meglio che sotto Saddam, voglio dire, nel primo anno di occupazione le cose andavano discretamente, è dopo che sono iniziati i problemi, ed è iniziato a comparire lo stato islamico [Ndr: L'intervistato non si riferisce a un gruppo politico specifico, come si comprenderà anche dal seguito, ma ad organizzazioni che, pur non detenendo il potere politico, iniziavano a detenere un potere sociale.] Non c'erano più regole allora, non c'era tranquillità: la nostra opinionje è che cellule islamiche si muovessero nell'ombra.
Le cose sono degenerate nel 2005, quando ci sono state le prime elezioni politiche e si sono presentati diversi partiti di ispirazione islamica e per di più diversa (sciiti, sunniti). A quel punto sono iniziate le divisioni settarie e si è cominciato a percepire qualcosa che prima non c'era, ossia l'identità islamica, che prima era meno importante in Iraq, anche perché l'intelligence di Saddam Hussein era molto precisa e non lasciava spazio allo sviluppo di queste tendenze.

Come si esprimevano queste “tendenze”?

Al-Qaeda e Ansar Al-Sunna [Organizzazioni politiche salafite che furono i prodromi dello stato islamico negli anni Duemila. Non è chiaro se l'intervistato abbia una nozione precisa dell'identità e differenza politica di questi gruppi, Ndr] hanno cominciato a taglieggiare i commercianti, a estorcere soldi nel quartiere cristiano, Al-Sukan: tutti i commerci pagavano. È a quel punto che mio fratello è stato ucciso da questa gente, perché si rifiutava di pagare; era il 2007. Un anno dopo, nel 2008, sono esplose delle bombe nelle case di cristiani.

Secondo voi, qual era il supporto che questi gruppi avevano nella città?

E'
 difficile dirlo. Potrei dirti che erano appoggiati dal 20%, o dal 25%, ma il problema è che non è facile quantificare in questi termini il loro ascendente sociale. Nella comunità musulmana, quando qualcuno prende l'iniziativa e dice di agire in nome dell'Islam, chi gli è attorno è come se sentisse un richiamo, il richiamo dell'Islam.
Come è evoluta la situazione?

Nel 2008 ci sono state nuove elezioni e per questo nuove tensioni, e già allora i primi cristiani hanno cominciato ad andarsene, anche perché iniziavano ad avvenire rapimenti ai nostri danni, spesso a scopo economico. Sono iniziati anche gli omicidi degli uomini di chiesa, come il vescovo della città, che è stato decapitato, poi il prete Rashid o Farah, ucciso da Al-Qaeda.

Poco dopo, nel 2011, è arrivato il momento critico, ossia il ritiro delle forze d'occupazione statunitensi e britanniche e lo strapotere del governo Al-Maliki.

Al-Maliki ha distrutto l'Iraq. Da quando lui ha esercitato il potere, ciascuno si è sentito soltanto più parte del proprio gruppo confessionale. La seconda divisione dell'esercito iracheno, quella che era di stanza a Mosul (e che si sarebbe ritirata senza combattere nel 2014) era completamente sciita.

Cosa è accaduto quando l'Isil è entrato a Mosul?

Quando lo stato islamico è entrato a Mosul era il 5 giugno 2014, soltanto la polizia lo ha affrontato per due o tre giorni, sul lato destro del fiume. Il lato destro del fiume Tigri delimita la parte orientale della città, dove è situata la città vecchia. La popolazione curda e cristiana di Mosul era principalmente stanziata nella parte occidentale, sul lato sinistro del fiume; la parte nuova e anche più ricca. Nessuno ha aiutato la polizia mentre fronteggiava Daesh, l'esercito non è intervenuto e, quando la polizia ha finito le munizioni, è scappata sul lato sinistro, e con lei molta altra gente che ci viveva. A questo punto, però, il governo diceva di non uscire dalla città.

Per quel che ne sapete, i poliziotti che hanno cercato di opporsi erano sunniti o sciiti?

Anche la polizia era in maggioranza sciita.

Ritenete che il governo non abbia difeso Mosul?

Certo che no, ma non era la prima volta. Voglio dire: dal 2007, fino a oggi, a Mosul esplodevano autobombe nel mezzo di tre check-point. Come avevano fatto a passare tra tre check-point?

Intendete dire che il governo di Baghdad era coinvolto?

Certo che era coinvolto. Le autobombe esplodevano persino nelle chiese.

Cosa è accaduto dopo che l'Isil ha messo in fuga la polizia nella città vecchia?

I miliziani sono passati sul lato sinistro, allora siamo tutti andati via dalla città. Era il 9 giugno. È stato un ingorgo enorme, abbiamo impiegato 17-19 ore in auto per fare la strada fino a Erbil, per la quantità di automobilisti e pedoni che c'erano in marcia lungo la strada. Inoltre, la nostra auto si è rotta e abbiamo dovuto lasciarla a lato della strada e continuare a piedi fino al check-point di Erbil. È stato un giorno difficile...

Quindi non avete visto quel che è accaduto nei giorni successivi?

No, non eravamo più a Mosul. Sappiamo che lo stato islamico ha sequestrato degli uomini di chiesa e li ha rilasciati in cambio di un riscatto. Però da due giorni dopo, tra l'11 e il 14 giugno, sentendoci al telefono con i nostri conoscenti queste erano le notizie dalla città: potete tornare, lo stato islamico ha tolto i suoi check-point, non ci sarà problema, potrete vivere come prima, è soltanto un nuovo governo.

Che cosa avete fatto allora?

Confortati da queste notizie, siamo allora tornati in città, tutta la famiglia. Effettivamente non c'era nessun problema o controllo, anzi i miliziani di Daesh all'ingresso in città ci hanno detto prego, tornate pure nella vostra città. C'era anche un cartello: “Lo stato islamico vi dà il benvenuto”. Siamo stati in città quattro giorni circa, il tempo di riparare l'auto che si era rotta.
Il problema è che la città era diversa, la gente era diversa. In tanti avevano le barbe lunghe, e tutti portavano i pantaloni tirati su fino al ginocchio [Regola imposta dallo stato islamico per supposte ragioni di igiene, Ndr]. Decidiamo di tornare a Erbil.Dopo circa venti giorni, un vicino di casa di Mosul (musulmano sunnita) mi chiama per avvisarmi che i miliziani hanno sfondato la porta di casa mia. Dice che lui ha loro chiesto che stesse accadendo, e loro hanno detto che stavano facendo un controllo per verificare che la casa fosse disabitata, ma lui sapeva che le cose non stavano così.
Allora sono ripartito per andare a vedere cosa accadeva, anche stavolta non c'erano check-point di Daesh lungo la strada; era il 3-4 luglio. I vicini e la gente di zona mi hanno confermato che i miliziani erano entrati in casa mia. Allora sono andato a una “sede” ufficiale di Daesh, che era a cento metri, e ho parlato con un miliziano, tale Abu Shaam, che parlava con accento di Mosul. Di fronte alla mia richiesta di spiegazioni, ha risposto: “Mi dispiace, siamo entrati per un controllo. Tu sei cristiano, sei mio fratello. Ti ripareremo la porta”.
Poi cos'è successo?

Dopo un'ora altri miliziani arrivano nella mia casa e dicono che l'emiro Abu Salaam mi vuole vedere nell'ufficio di Daesh. Per prima cosa mi chiede quale sia la mia religione e commenta: “Ah, sei nazareno. [“Nazrani” è il termine spregiativo con cui taluni musulmani denotano i cristiani, Ndr] Che cosa vuoi?”. Ho detto loro che ero stato fuori città per trovare dei parenti e che, tornato, avevo trovato la porta danneggiata. Lui allora mi ha chiesto: “Perchè sei tornato? Non hai paura? Non sai che questo è lo stato islamico, e tu sei nazareno?”.
Io ho detto che nel corano è scritto di non fare del male ai cristiani, ma lui mi ha interrotto dicendo: “Taci, nazareno. O ti converti all'Islam, o paghi la tassa prevista per chi non lo fa, o lasci tutte le tue cose qui e te ne vai. Altrimenti ti uccidiamo”. Ha aggiunto di lasciargli il mio numero di cellulare, perché se mi fosse stato concesso di tornare, mi avrebbe chiamato. Ho detto che ormai era sera ed era un problema partire. Ha detto che il mattino dopo non voleva più vedermi in giro. Ho lasciato tutto nella casa e sono partito alle quattro del mattino con un taxi. Pochi giorni dopo, il 18 luglio, il califfo ha reso noto che tutti i cristiani avrebbero dovuto convertirsi, pagare una tassa speciale o morire, e tutti i cristiani rimasti hanno lasciato la città.

Da allora vivete qui, ad Ainkawa. Volete mandare un messaggio all'Europa?

È l'ultimo messaggio: salvate i cristiani del medio oriente, qui non c'è più nulla per noi. A Mosul abitano milioni di persone e, nella situazione che ormai si è creata, come faccio a sapere di tutte queste persone chi è con Daesh, chi è con me? Che speranza c'è per i miei figli qui, a Erbil? L'Europa deve lasciarci entrare, Daesh non ci ha lasciato nulla. Turchia e Libano non danno visti. L'Italia, la Francia non sanno cosa sta accadendo qui? Non abbiamo soldi, ci hanno preso tutto, cosa aspettano a farci entrare in Europa? Qui non c'è futuro per noi.
Abbiamo visto troppi massacri: noi, i nostri padri, i nostri nonni. Non vogliamo più stare qui. È iniziato millequattrocento anni fa, quando a Najaf [Città dell'Iraq meridionale, oggi santa per l'Islam, Ndr] c'erano 1.500 chiese [sic], e continuano a spingerci sempre più a nord. Amiamo tantissimo Mosul, ma o ci mandano dei soldati a proteggerci, oppure non abbiamo scelta: dobbiamo andarcene. Perché ci fate stare come degli idioti in Giordania, in Libano, in Turchia? Se andiamo in Giordania per due o tre anni i figli non potranno studiare, saremmo considerati diversi, come un problema per quel paese, non troveremo lavoro. È ovvio che dobbiamo venire in Europa.
Intervista raccolta dal corrispondente di Radio Onda d'Urto e Infoaut ad Ainkawa, Iraq, marzo 2016

29 aprile 2016

Christians in Crisis: Report Details Dire Situation in Iraq and Syria

By ZENIT
 
With no end in sight to the fighting in Iraq and Syria the remaining Christian population continues to experience very difficult conditions.
A recent report, “Salt of the Earth: Impact and Significance of the Christian Presence in Syria and Iraq during the Current Crisis,” details the significant contributions Christians have made to the region and what it stands to lose if they are forced to flee.
The report was a joint effort by the organizations Open Doors, Middle East Concern, Served, and the University of East London.
Up until a few years ago Christians in Syria accounted for about 8%-10% of the 22-million population. Syria’s Christians were made up of members from 11 officially recognized groups, most of whom self-identify as Arab or Arabic-speaking, the report explained. The largest group were Greek Orthodox, with about half a million adherents.
The report put at 40%-50% the proportion of these who have been forced to leave Syria due to the conflict. The impact of those leaving has been particularly evident in the all-Christian villages.
The report also observed that many Christians may not return to Syria even upon a cessation of the conflict as they will have resettled in diaspora communities. As well, among many interviewed for the report the feeling was that “although Syria has experienced other waves of conflict and out-migration in the past, more Christians sense a greater ongoing threat in the current crisis and feel they are living in Syria on borrowed time.”
Prior to 2003 there were approximately 1.5 million Christians in Iraq, but this number has dropped dramatically, with the current number put at anywhere between 200,000 to 500,000.
Approximately 70% of Christians are from the Chaldean Catholic tradition, while the remainder are Syriac Orthodox, Syriac Catholic, Armenian and Protestant.

Impact of Christianity

“Throughout much of its history, Christianity has been a minority faith in the region, yet Christians have held significant influence,” the report observed.
For example, Christians have played an important role in healthcare and the provision of aid. In relation to Syria the report said that their faith-based organizations have been better able to utilize local distribution networks for aid than secular non-governmental organizations.
“Some of the most effective and respected aid providers in Iraq are Christian organisations,” the report added.
Christians in the two countries are also known for their higher than average educational achievements. “Creative production in Syria has largely relied on the influence of Christians,” the report stated. There were approximately 300 schools in Syria run by Christian charities prior to 2012.
“Many fear, therefore, that the loss of a Christian influence in Syria could open a greater space for extremism,” the report commented, in relation to the sectors of education and culture.
In Iraq Christians also ran many prominent educational institutions and even after the Christian religious schools were replaced by a national education system many university professors were Christians, the report explained.
“Christians have played a vital role in facilitating important developments in their fields that might not have advanced without their participation,” said the report referring to Iraq. “Christians also contribute a diversity of perspectives, which helped develop critical thinking in society.”
Christians are also active in politics, with a number of Christian political parties in Syria. In general Christians have cooperated with the regime in Syria and have held senior government posts, the report stated.
In Iraq the political situation of Christians is more complicated. According to the report the Chaldean Church was seen as privileged under Baathist rule, largely due to their acceptance of an Arab Iraqi identity. By contrast Assyrians felt overlooked and victimised. In addition many Iraqi Christians went to live in the territory held by the Kurdish Regional Government.
In relation to religious freedom the report commented that in Syria there was general freedom of worship. Under the Baathist regime, Christian communities were allowed to purchase land, build churches or other institutions.

Devastating losses

The fighting has brought with it a drastic change in this situation. “In contested areas, Christians along with their fellow countrymen have faced devastating losses mitigating any privilege or sense of rights,” the report said. This is in spite of the fact that many Christian communities have avoided taking sides in the conflict.
In Iraq also there was freedom for Christians to practice their faith, but since 2003 there have been numerous church bombings and harsh treatment of religious minorities by Islamic extremists.
In concluding, the report stated that Christians face increasing pressure and risk from multiple sources. The educational, cultural and economic achievements attained by Christians are no longer sufficient to protect them.
“Christians are widely acclaimed for their values, relative integrity, and commitment to excellence,” the report noted, but this significant contribution to their countries is in grave danger of being lost due to their forced exile and continuing persecution.

28 aprile 2016

Defending religious freedom and other human rights: Stopping mass atrocities against Christians and other believers




 
 
As delivered during the event organized by the Permanent Observer Mission of the Holy See to the UN, together with co-sponsors CitizensGo, MasLibres and In Defense of Christians on April 28, 2016 at the UN Headquarters in New York
 
Dear Brothers and Sisters, honored guests, and sponsors,
My name is Father Douglas Bazi, and I am a Parish Priest from Mar Elia Church and the center for Internally Displaced Persons in Ankawa, Erbil, in Northern Iraq. On
behalf of the remaining Christians of Iraq, I thank you for the opportunity to speak to you all today.
In this world of constant emergency, it is all too easy for the crisis of the day to be forgotten in tomorrow's news. Conferences such as this are critical in making sure
that the crisis of Iraq's Christians does not disappear from our thoughts and actions. In this opening speech, I would like to raise the critical points that I believe are
needed to understand the situation of the Genocide against the Christians of Iraq.
Christians have been in Iraq for nearly 2000 years, this is the region where Christianity was born, and Christians have contributed in important ways to the
culture and achievements of the region."
In 2003, there were over 1.5 million Christians in Iraq. Today, we are less than 300,000, perhaps even less than 200,000. Of these few remaining Christians, half
are internally displaced, living in camps mostly inside the Kurdistan Region, with little hope. "I too know what the people living in the camps in Kurdistan have been
through, because like them, I was kidnapped by terrorists and tortured, simply because I was a Christian."
How did this happen? Who bears the moral responsibility for this? What should be done for the Christians who remain in Iraq? And just as important, what should be
done for those Iraqi Christian refugees whose lives are on hold in desperate situations in other countries? Turkey, Lebanon and Jordan?? These are the questions we must look to answer.
As we discuss the disappearance of Christians from Iraq, it is important that we understand the history under which this has taken place. This has not been a
peaceful migration of people simply looking for a better life. No, this migration has been forced, and in many cases, brutally so. In both Europe and the United States,
this persecution of Iraqi Christians has been labeled Genocide.
And how did this Genocide affect the Christians of Iraq who have survived? Many people simply fled their homes, with death at their door, to any foreign country that
they could reach. For most of these people, their situation remains very difficult, and we should not forget them.
But what of the people who were able to reach a temporary safe place inside Iraq, but still decided to leave or who want to leave now? For these people the answer is
painful and difficult: they do not see any future, and they do not have any hope that a better future will come. Can we find ways to give hope and a future to those who
still remain? Can we find ways to help those Iraqi Christians trapped in difficult situations in foreign countries? This is our task now.
We must also discuss another thing: the possible end of Christianity in Iraq. Friends, I am a Priest. I cannot abandon hope. But at the same time I see reality in front of
me everyday. My people are losing hope and we are disappearing. Every day our numbers grow smaller. Soon we will be small enough for the world to forget us completely. Then Christianity in Iraq will essentially be gone. Can we change this future? Does the will exist among the good people of this world to change this reality? Has this finding of Genocide come in time to make a difference, and what can we do with it now?
This brings us to a very important question. Is it important that Christianity survives in Iraq? Of course there are many who will say, mostly from a distance,
that it is important to save Christianity in Iraq for cultural and historical reasons. There is great truth to this of course. But friends, the Christians of Iraq were, and
are, living, breathing human beings, not museum pieces. If there is a fundamental reason that they should survive it is simply this: on our small earth, peaceful people
should have the right to live in their homes in peace and dignity. And when the world stands by and watches any peaceful people disappear, it is a wound to the
entire world. Over time, this wounding will kill us all.

Mar Ignatius Joseph Younan III e Monsignor Basel Yaldo: Aiutateci a sopravvivere

By Il Nostro Tempo (Arcidiocesi di Torino) 


Il grido d’allarme del Patriarca siro-cattolico di Antiochia e del Vescovo di Baghdad per i cristiani perseguitati, lanciato a Torino al convegno de «il nostro tempo». Le responsabilità dell’Occidente, stop al mercato delle armi.
 
Papa Francesco, durante la sua visita apostolica di luglio scorso in Bolivia, ha deplorato il genocidio dei cristiani: «Oggi», ha detto il Pontefice, «siamo costernati per vedere come in Medio Oriente e in altre parti del mondo molti dei nostri fratelli e sorelle sono perseguitati, torturati e uccisi per la loro fede in Gesù. È una forma di genocidio in atto che stiamo vivendo, e deve finire».
Proprio due settimane fa ritornavo dalla mia decima visita in Iraq. In Kurdistan, regione autonoma nel nord del Paese, ho potuto incontrare migliaia delle nostre famiglie siro-cattoliche, che vivono in piccole case prefabbricate e in edifici in disuso. In angusti appartamenti affollati vivono anche due, tre o più famiglie. Quando in giugno e agosto 2014 furono sradicate dalle loro case di Mosul e della Piana di Niniveh, le famiglie siro-cattoliche erano circa 11 mila. Oggi il loro numero si avvicina alle 7 mila. Dove sono andate? Più di 2 mila famiglie sono già in Libano, altre in Giordania e quasi 700 famiglie sono fuggite in Turchia. Migliaia di altre persone hanno traversato mari e oceani cercando pace e dignità.
In quell’orrendo esodo del 2014, tutta una diocesi del Nord d’Iraq fu sradicata dalle frange terroristiche dello Stato islamico. Un arcivescovo, 34 sacerdoti e religiosi, più di 50 suore e 45 mila dei fedeli furono sradicati bruscamente; nella lugubre notte del 6-7 agosto 18 chiese e un monastero risalente al quinto secolo furono preda dei terroristi, e lo sono ancora. Il morale di questa povera gente, sfrattata con violenza dalla loro terra, non riesce a risollevarsi.
La loro domanda è sempre la stessa: «Patriarca, ritorneremo mai nelle nostre case?». Potranno mai ritornare davvero a casa? Secondo le ultime previsioni non sono più di 250 mila i cristiani rimasti in Iraq, meno del 25 per cento del numero stimato vent’anni fa.
Lo scorso 18 aprile sono stato a visitare la città di Al-Qaryatain, che è stata liberata dallo Stato islamico coll’intervento dell’esercito nazionale siriano e le forze aeree russe. In quella stessa città di fantasmi, perchè orribilmente distrutta, il nostro monastero di Sant’Elian è stato raso al suolo. Una simile sorte hanno subito le nostre due chiese parrocchiali. Padre Jacques Mourad, rettore del monastero e parroco, era già stato rapito dagli islamisti lo scorso maggio. Ma dopo quattro mesi, con l’aiuto divino, è stato liberato e sta ora recuperando le forze in Italia. 
Spesso noi sentiamo i nostri confratelli cattolici che ci domandano: cosa fare? come possiamo aiutare voi cristiani dell’Iraq e la Siria? Ecco il mio appello alla coscienza dei leader occidentali e dei media: è ora che vi attiviate per libertà religiosa delle comunità cristiane e le altre minoranze che lottano per la sopravvivenza nei loro Paesi d'origine. Occorre fermare il flusso delle armi ai gruppi jihadisti in Siria e in Iraq, mettendo fine all’invio di armamenti ai cosiddetti gruppi di “opposizione moderata” che finiscono per allearsi coi terroristi. Il presidente degli Usa Barack Obama un anno fa ha confessato che «l'opposizione moderata in Siria è semplicemente una fantasia». Allo stesso modo, è più urgente impedire il finanziamento di quelle organizzazioni terroristiche da parte dei più fanatici e radicali tra i sunniti wahabiti” degli Stati del Golfo, soprattutto l’Arabia Saudita, il Qatar, gli Emirati del Golfo e la Turchia. Continuare a parlare di Iran come promotore del terrorismo nella regione è un modo per ignorare il problema e rinviare le soluzioni. Vi preghiamo, aiutateci a sopravvivere nei Paesi degli antenati.

Cristiani perseguitati: Acs, Chiesa irachena aderisce a evento a fontana di Trevi

By SIR
 
I cristiani sono il gruppo religioso maggiormente perseguitato e la loro condizione continua a peggiorare in molti dei paesi in cui affrontano da tempo gravi limitazioni alla libertà religiosa. Lo conferma il Rapporto sulla libertà religiosa di Aiuto alla Chiesa che Soffre (Acs) che, pubblicato dal 1999, di edizione in edizione continua a denunciare la drammatica tendenza.
Per sensibilizzare maggiormente l’opinione pubblica al tema della persecuzione, Acs domani alle ore 20 illuminerà Fontana di Trevi di rosso a simboleggiare il sangue dei tanti martiri cristiani uccisi ancora oggi in odio alla fede. Tra gli scenari più tetri, ovviamente quello mediorientale. In Iraq, dove dal 2002 ad oggi la popolazione è diminuita da un milione a meno di 300mila, con una impressionante media di 60/100mila partenze ogni anno. Se la tendenza continuasse, la comunità cristiana non esisterebbe in soli 5 anni.
E dalla capitale irachena giunge una nuova adesione all’iniziativa Acs, da parte del Patriarca caldeo Louis Raphael I Sako. “Domani sera ci uniremo a voi in preghiera. Siamo lieti di essere in tal modo in comunione e unità con tutto il mondo cristiano”. Anche il patriarca sottolinea la necessità di accrescere la consapevolezza dell’opinione pubblica sul martirio cristiano. “Purtroppo perseguitare i cristiani è divenuto un fenomeno diffuso. Non soltanto in Iraq, ma in molte parti del mondo e perfino in Occidente dove i fedeli sono discriminati”. Il prelato iracheno ricorda inoltre il valore della testimonianza dei martiri cristiani: “Un modello di amore totale, fedeltà e sacrificio che deve far riflettere tutti. Noi cristiani iracheni traiamo forza dalla loro testimonianza di fede e siamo convinti che il sangue dei martiri ci darà tanta speranza e riuscirà a cambiare l’attuale situazione”.

Patriarca Sako: Amoris Laetitia, fonte di misericordia e formazione per il popolo irakeno

 
L’Amoris Laetitia racchiude due “elementi essenziali” per le famiglie cristiane irakene: il valore della “misericordia” che deve servire “a formare” le persone “alla verità”, unita alla “conversione, che ci insegna che la verità è amore”.
Essa potrà avere anche “riflessi molto positivi” sui musulmani, i quali “stanno aspettando un discorso diverso” sulla famiglia, sull’amore, sull’unione fra i coniugi e sulla formazione dei bambini.
È quanto racconta ad AsiaNews Mar Louis Raphaël I Sako, patriarca caldeo, fra i partecipanti al recente Sinodo sulla famiglia, commentando
l’esortazione apostolica di papa Francesco. Sua beatitudine racconta che, fra guerre e violenze confessionali, oggi in Iraq “formare una famiglia è molto duro, una sfida”. Tuttavia, le difficoltà aiutano a rafforzare i legami tanto che “vi sono pochi casi di famiglie spezzate”, mentre divorzi e separazioni sono più frequenti fra “coloro i quali vanno all’estero, in Occidente”. 
Fra gli elementi di forza Mar Sako individua il rapporto stretto fra il sacerdote, il vescovo e i suoi fedeli, perché l’autorità “non è per dominare, ma per servire, amare, aiutare, formare e orientare la gente”. Inoltre, il patriarca caldeo apre al sacerdozio per gli sposati - una tradizione secolare in Oriente - a tutta la Chiesa universale “perché non vi sono contraddizioni” e con il tempo “si andrà in questa direzione”. Perché “il Vangelo non è una tradizione, ma una parola viva per l’uomo di oggi e per questo bisogna confrontarsi con l’attualità”.
Ecco, di seguito, l’intervista del patriarca Sako ad AsiaNews:
Beatitudine, che valore ha l’esortazione apostolica per le famiglie cristiane irakene?
In questo testo vi sono due elementi essenziali: in primis la misericordia, che in questo anno giubilare assume ancor più valore. Gesù ci parla sempre di misericordia, una delle beatitudini che va compresa a fondo perché deve servire per formare - e non per distruggere - la gente. Non basta perdonare, ma bisogna aiutare gli altri a capire il valore della misericordia che deve condurre alla verità. La Chiesa non deve avere paura, anzi deve trovare il coraggio di aggiornarsi, rinnovarsi, perché se noi rimaniamo solo in un contesto tradizionale e conservativo finiremo per perdere i nostri fedeli. La nostra missione non è di giudicare la gente, ma aiutarla a vivere nella gioia e nel perdono. E poi l’elemento della conversione, che ci insegna che la verità è amore. 
E in che misura l’Amoris Laetitia riguarda anche il mondo musulmano? 
Penso che questo testo - del quale servirebbe una sintesi - avrà riflessi molto positivi anche per i musulmani, non solo qui in Iraq. Anche loro stanno aspettando un messaggio, un discorso diverso. Prendiamo l’elemento della poligamia: come è possibile, oggi, parlare di poligamia e amore? Il matrimonio non è una fabbrica di bambini, l’importante è la formazione e l’educazione alla paternità, e prima ancora al rapporto di coppia, all’unione fra coniugi. Sarà importante diffondere questa esortazione in un linguaggio appropriato, in arabo; questo avrà una vasta eco anche nel mondo musulmano, che si interesserà a noi, alla nostra visione. L’elemento dell’unità del matrimonio, dell'amore e della mancanza di poligamia… ecco, sono tutti elementi che abbracciano l’islam.
Infatti papa Francesco invita ad abbracciare tutti e non dimenticare nessuno…
Sì, sono parole che hanno grande valore per noi che conosciamo il dramma della guerra, della sofferenza, dell’abbandono. Nei giorni scorsi in tanti mi hanno chiesto perché il papa ha accolto dei musulmani in Vaticano al suo ritorno da Lesbo. Io ho risposto che il Vangelo non fa differenze fra persone secondo la loro fede o etnia, chi ha bisogno va aiutato. Il papa ha fatto un gesto simbolico molto ricco, l’ho trovata un’apertura molto grande che è stata apprezzata dai musulmani qui. È un messaggio evangelico molto forte.
Beatitudine, cosa significa essere famiglia in Iraq fra guerra, violenze confessionali, crisi economica?
Avere o formare una famiglia oggi è molto duro. È una sfida, se pensiamo alla situazione politica e alla situazione religiosa. Talvolta la gente non riesce nemmeno a venire in chiesa. I problemi di natura economica, la mancanza di sicurezza generano grande paura e la gente, i cristiani, trovano la forza proprio nel vivere appieno la fede, nel Vangelo.
Il conflitto ha inasprito le crisi familiari, vi sono più separazioni o divorzi?
No, al contrario. Noi abbiamo pochi casi di famiglie spezzate. Sono piuttosto coloro i quali vanno all’estero, in Occidente, a subire crisi profonde che portano anche alla separazione. Anche loro imparano il modello della società che li ospita. Invece qui in Iraq, fra quanti restano, i casi di divorzio sono molto limitati e lo stesso vale per gli annullamenti.
Restare insieme, uniti, lavorare e vivere in comune, proteggersi, farsi forza… questa è la base! Per noi non vi è altro che la famiglia, che si rifà ancora al modello patriarcale, con rapporti molto stretti e forti. Questo vale ancor più se pensiamo al confronto quotidiano con i musulmani e il modello tribale; ecco perché per i cristiani diventa essenziale mantenere un legame forte. 
Patriarca Sako, la Chiesa irakena ha delle iniziative particolari a sostegno della famiglia?
Certo, abbiamo in programma diverse attività. Prima di tutto un corso per preparare e formare le coppie al matrimonio; prima di benedire la coppia c’è un percorso approfondito di formazione da seguire. E per chi è già sposato vi sono i gruppi di preghiera, per discutere e affrontare i problemi. Vi sono anche corsi di teologia aperti alle coppie e ai laici, oltre che momenti di incontro al termine della messa e nelle principali funzioni del calendario liturgico; i fedeli si riuniscono in un’aula o all’aperto, per scambiare due chiacchiere, confrontarsi e aiutarsi in modo reciproco con l’obiettivo di rafforzare la vita comunitaria.
Nella parrocchia la gente si conosce e si frequenta, le persone non si sentono straniere ma tendono a creare legami le une con le altre, si salutano e si parlano. L’ambiente è molto sereno e familiare. Il nostro compito è quello di promuovere l’unità, formare, aiutare, dare un po’ di speranza, adempiere a questo compito di promuovere la pastorale. Da noi l’espressione per indicare un pastore è “abouna”, un termine che in arabo significa padre; questo vuol dire che io non mi sento un funzionario, nella Chiesa Gesù vuole pastori e non funzionari o amministratori.
Anche per questo sto pensando di aprire un centro di ascolto per la famiglia a Baghdad. 
Questo legame fra il vescovo, il sacerdote e la comunità è un valore che la Chiesa d’Occidente dovrebbe riscoprire dalle chiese orientali?
Penso di sì, perché questo rapporto per noi è un elemento essenziale! I fedeli che vengono alla messa per noi non sono numeri, sono persone; se uno non viene, chiedo perché non ci sia, mi interesso. L’ho sempre fatto, prima da parroco e poi da vescovo a Kirkuk. E poi le visite alle famiglie bisognose, cui ora si sono aggiunge le famiglie di sfollati [fuggiti da Mosul e dalla piana di Ninive con l’arrivo dello Stato islamico, ndr] e io che mi chiedo sempre cosa si possa fare per aiutarle, essere loro vicino. Ai preti dico di essere gentili, umili e servirle nel bisogno. Del resto se abbiamo un’autorità non è per dominare, ma per servire, amare, aiutare, formare e orientare la gente. Dobbiamo fare sacrifici per loro, proprio come un padre compie sacrifici, va al lavoro, per mantenere la propria famiglia. Questa è una delle mie più grandi preoccupazioni a livello pastorale. 
In Oriente vi sono sacerdoti sposati. Una pratica che si può estendere a tutta la Chiesa?
Perché no?! Oggi vi è una carenza di preti, e perché non può essere possibile aprire il sacerdozio alle persone sposate… La cultura, la mentalità è cambiata e sono convinto che avere preti sposati come da noi sia una forza, un modello per gli altri. Si tratta di una scelta, si può essere sacerdoti da celibe oppure sposati e penso che col tempo si andrà in questa direzione. Certo è importante la formazione, ma un padre di famiglia saprà garantire un’ottima pastorale, vicina alla gente. Non ci sono contraddizioni in questo. È una disciplina! E i preti che non sono sposati possono vivere in comunità; per me vivere con altri, sia da sacerdote che da vescovo, è stata una forza. La vita comunitaria è fonte di arricchimento, e la stessa cosa faccio oggi da patriarca a Baghdad. Queste due diverse tipologie, preti sposati e non, si completano fra loro, non sono in contraddizione. Il Vangelo non è una tradizione, ma una parola viva per l’uomo di oggi e per questo bisogna confrontarsi con l’attualità, con fede e coraggio.
 

27 aprile 2016

New York events will give a voice to victims of anti-Christian persecution

 
This week’s #WeAreN2016 Congress aims to call on the world to stop the persecution of Christians and other minorities. Victims of persecution and leaders from around the world will speak about the need for action in Syria, Iraq, Nigeria and elsewhere.
“Christians account for 80 percent of persecuted minorities,” the congress website said. “They are victims of the deliberate infliction of conditions of life that are calculated to bring about their physical destruction in whole or in part. They are being murdered, beheaded, crucified, beaten, extorted, abducted, and tortured.”
The congress cited other atrocities like enslavement, forcible conversion to Islam, and sexual violence against women and girls.
The congress’ events will take place April 28-30 at several New York City venues. The Holy See’s permanent observer mission to the United Nations is among the conference sponsors, as is the group In Defense of Christians. The congress was organized by the citizen activism website CitizenGo and the Spain-based religious liberty advocacy group MasLibres.  The April 28 events will take place from 10 a.m.-1 p.m. at the U.N.’s Economic and Social Council Chamber.
Opening remarks will come from Archbishop Bernardito Auza, who heads the Holy See’s permanent observer mission, and Ambassador Ufuk Gokcen, who is the permanent observer of the Organization of Islamic Cooperation.
They will be followed by a panel discussion on protecting victims of persecution and fostering religious freedom around the world. Archbishop Auza will chair the panel. Panel members include Carl Anderson, Supreme Knight of the Knights of Columbus; Lars Adaktusson, Swedish member of the European Parliament; and Dr. Thomas F. Farr, who was the first director of the U.S. State Department’s Office of Religious Freedom.
Ignacio Arsuago, president of CitizenGO, will chair a panel about mass atrocities, the exodus of Christians, and those who have suffered due to the Islamic State group. Bishop Joseph Danlami Bagobiri of Kafanchan, Nigeria will be a panelist, as will Sister Maria de Guadalupe, a missionary in Syria, and Father Douglas Al-Bazi, a Chaldean Catholic priest who was kidnapped by the Islamic State group in Iraq.
Carl and Marsha Mueller will also speak. They are the parents of aid work Kayla Mueller, who was kidnapped by the Islamic State group in Syria and killed.
Another panel will discuss Christian and Yazidi women as sexual victims of crimes against humanity. Panelists include a Yazidi who was kidnaped by the Islamic State group.  On April 29, at 10 a.m., backers of the #WeAreN2016 petition will deliver it to the U.N. Secretary General. The petition calls on the international community to recognize the nature of the systematic attacks on Christians and other religious minorities. It also calls on the international community to commit itself to protect them according to international law and previous U.N. resolutions.
That evening, the documentary “Insh Alla—Blood of the Martyrs” will premiere at the Roosevelt Hotel. A 6:30 p.m. reception will precede the 7:30 p.m. showing. The movie is produced by MasLibres and CitizenGo.
On April 30, the final day of the congress will be hosted at the Roosevelt Hotel from 9 a.m.-4:45 p.m.
The daughter and husband of Asia Bibi, a Christian woman who faces a death sentence in Pakistan for violating its strict blasphemy law, will speak at the gathering. They will be joined by Syrian missionaries, Fr. Al-Bazi, and Bishop Bagobiri.
Other speakers include Ignacio Arsuaga, president of CitizenGo; Toufic Baaklini, president of In Defense of Christians; and Drew Bowling, communications and policy advisor to U.S. Rep. Jeff Fortenberry(R-Neb.), the congressman who introduced a House resolution against the genocide of Christians and other minorities in the Middle East.
Additional information and registration are available at the site www.wearen.org. All registration fees will support the witnesses of persecution who speak at the conference.

Isis: Younan, indifferenza vergognosa su tragedia cristiani

 
All'interno del dramma dei profughi se ne sta consumando uno con caratteri specificamente religiosi. E' la tragedia delle famiglie cristiane in Iraq e in Siria denunciata questa sera nel corso di un incontro promosso dal settimanale diocesano torinese "Il nostro tempo", dal patriarca di Antiochia della chiesa siro-cattolica Ignace Youssef III Younan. Il patriarca ha spiegato che negli ultimi due anni mancano all'appello quattromila delle undicimila famiglie cristiane presenti tra Mosul e la Piana di Niniveh in Iraq. "La metà sono già in Libano, migliaia di altre persone hanno già attraversato mari ed oceani cercando pace e dignità".
Sotto i colpi delle bande terroristiche dello stato islamico in Iraq sarebbero rimasti non più di 400mila cristiani, meno della metà rispetto al milione che erano nel 2003. "Avevamo un dittatore - ha osservato il vescovo di Baghdad Basel Yaldo - ora ne abbiamo cento. Almeno ai tempi di Saddam c'era più sicurezza, ora viviamo nel terrore". Anche in Siria la situazione è altrettanto drammatica: un centinaio di chiese, quattro monasteri distrutti, la minoranza cristiana, sparsa in tutte le regioni, che ha subito uccisioni barbariche, rapimenti e abusi. Circa mezzo milione di persone è dovuto fuggire dalle aree di conflitto e dalle violenze. "Ciò che rende la situazione ancora peggiore - ha detto il patriarca - è l'indifferenza vergognosa verso le minoranze nelle terre dell'Islam da parte delle cosiddette nazioni democratiche del mondo libero e ciò ovviamente per opportunismo economico".
Un argomento toccato con accenti diversi anche dall'arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia in un suo videomessaggio: "C'è un silenzio spesso incomprensibile che segnala quanto sia difficile per il mondo occidentale affrontare con impegno ciò che accade lontano da casa sua". Younan ha anche messo in guardia da una falsa lettura delle crisi mediorientali.
Nel mirino dell'Occidente, ha detto, soltanto i regimi più laicizzati e progressisti della regione mediorientale, come l'Iraq e la Siria, mentre i regimi integralisti vengono considerati "i migliori alleati". "Una complicità immorale" ha sostenuto. "L'Occidente è complice dei tragici avvenimenti in Siria". "Occorre fermare il flusso delle armi ai gruppi Jihadisti - ha detto il patriarca - mettendo fine all'invio delle armi ai cosiddetti gruppi di opposizione moderata che finiscono per allearsi con i terroristi". "IN Iraq i cristiani e le altre minoranze rischiano di perdere la speranza nel proprio futuro , se non ci saranno misure internazionali per proteggerli , assicurando loro una zona protetta dalle Nazioni Unite per una durata minima di dieci anni. Quanto alla Siria non c'è altra soluzione che avviare un serio processo di soluzione politica". "Noi ci aspettiamo dalla Ue - ha concluso il vescovo Yaldo - un aiuto per liberare i nostri fratelli dall'invasione islamica".

L’Isis distrugge la chiesa dei domenicani a Mosul

By Vatican Insider - La Stampa
Giorgio Bernardelli
 
Ancora un simbolo della presenza cristiana fatto esplodere con la dinamite dal sedicente Stato islamico: da Mosul è giunta la notizia della distruzione della chiesa dei domenicani, la parrocchia latina della grande città del nord dell’Iraq, da quasi due anni nelle mani dei jihadisti. Una chiesa costruita nel XIX secolo e testimonianza della lunga storia che lega i domenicani a Mosul.
A confermare le voci che già da ieri pomeriggio circolavano è stato con una nota il patriarcato caldeo. «Abbiamo ricevuto notizia che uomini dello Stato islamico hanno fatto saltare con la dinamite la chiesa latina appartenente ai padri domenicani e situata nel centro di Mosul - si legge nel comunicato -. È sconvolgente quanto sta accadendo in Iraq. Condanniamo con forza questo nuovo atto che ha preso di mira una chiesa cristiana, come quelli contro le moschee e gli altri luoghi di culto».La chiesa domenica di Mosul era l’erede di una lunghissima tradizione: l'ordine dei predicatori era infatti giunto in Mesopotamia già nel XIII secolo e aveva stabilito un suo convento anche a Mosul. Con la sconfitta del regno crociato ad Acri nel 1291 tutti i domenicani presenti qui subirono il martirio. Ma cinque secoli dopo papa Benedetto XIV volle ricominciare quella storia; così nel 1750 inviò di nuovo i domenicani a Mosul. La chiesa attuale risaliva al 1870 ed era nota soprattutto per il suo campanile con l’orologio, dono dell’imperatrice Eugenia di Francia, la moglie di Napoleone III.
Appare evidente l’intenzione del gesto dell’Isis: cancellare a Mosul persino la memoria della presenza cristiana. E vale la pena di sottolineare che questo nuovo episodio sia avvenuto nonostante negli ultimi mesi lo Stato islamico sia stato colpito duramente dai raid aerei in Siria e in Iraq. Insieme alle notizie di altre gravi violenze giunte nelle ultime settimane da Raqqa e dalla stessa Mosul, la distruzione della chiesa dei domenicani sembrerebbe dimostrare come un mero indebolimento dello Stato islamico non faccia altro che aumentarne il livello di ferocia, a danno della popolazione civile e dei simboli religiosi.
Proprio per questo il patriarcato caldeo nella sua nota rivolge un nuovo invito alle autorità irachene e alla comunità internazionale a uscire dall’indifferenza.  «I politici iracheni - si legge - cerchino una riconciliazione nazionale autentica, raggiungendo risultati tangibili per il ristabilimento dello Stato di diritto». Quanto alla comunità internazionale e alle autorità religiose l’invito è ad «assumersi pienamente le proprie responsabilità e a intraprendere passi seri per porre fine alle guerre e ai conflitti e creare le condizioni per una pace giusta e rispettosa della diversità e del pluralismo in Iraq e nella regione».


April 25, 2016 
Islamic State blows up Empress Eugenie's Clock Church in Mosul

I cristiani di Baghdad in pellegrinaggio a Ur dei Caldei

By Fides
 
E' stato il più grande pellegrinaggio compiuto da cristiani iracheni negli ultimi anni, quello che ha visto circa 200 caldei di Baghdad recarsi fino a Ur, il sito storico della bassa Mesopotamia, attualmente nel governatorato iracheno di Dhi Quar, che viene generalmente identificata con il luogo di nascita del Patriarca Abramo, padre di tutti i credenti. Venerdì 22 e sabato 23 aprile, accompagnati dal Vescovo caldeo Basilio Yaldo e da sette sacerdoti, i cristiani appartenenti a diverse comunità e parrocchie di Baghdad hanno vissuto il pellegrinaggio come momento forte nello spirito dell'Anno della Misericordia.
I pellegrini portavano con sé anche cartelli e striscioni con il logo del Patriarcato caldeo e con quello del Giubileo della Misericordia, “Speriamo di poter fare qui un pellegrinaggio più grande, con migliaia di pellegrini, quando Papa Francesco verrà a visitare questo luogo, a Dio piacendo” ha detto tra l'altro il Vescovo Basilio in occasione della Messa celebrata nel sito archeologico, non lontano dallo Ziggurat sumerico, sotto una tenda innalzata a ricordo di quella di Abramo.
In occasione della visita a Ur, i pellegrini provenienti da Baghdad hanno avuto anche incontri con i cristiani di Bassora e con l'Arcivescovo caldeo Habib al Naufali, che ha raccontato loro la vita quotidiana della locale comunità cristiana, formata ormai soltanto da 250 famiglie.

Ausiliare di Baghdad: "L’Iraq è nel caos, ha toccato il momento più basso della sua storia"

 
L’Iraq ha raggiunto “il momento più basso” nella storia del Paese, anche se “non possiamo dire di aver toccato il fondo”, perché vi è il rischio che “la situazione precipiti sempre più”. È il grido d’allarme affidato ad AsiaNews da mons. Shlemon Warduni, vescovo ausiliare dei caldei a Baghdad, che conferma i timori di analisti ed esperti secondo cui questo “è il periodo peggiore” della storia moderna dell’Iraq. Quantomeno dall’inizio del nuovo millennio a partire dalla caduta di Saddam Hussein nel 2003. “Nessuno riesce davvero a capire cosa stia succedendo - prosegue il prelato - e nemmeno a prevedere cosa accadrà nel futuro”.
Ieri il Parlamento irakeno ha approvato un (parziale) rimpasto della squadra di governo, accogliendo alcune delle proposte avanzate dal Primo Ministro Haider al-Abadi. Cinque i dicasteri interessati: Sanità, Lavoro e affari sociali, Risorse idriche, Elettricità, Istruzione superiore. Il piano di riforme proposto dal premier ha registrato la strenua opposizione di blocchi politici e gruppi in seno al Parlamento, che chiedono le dimissioni dell’esecutivo. 
Se all’interno dell’aula un blocco si oppone alle riforme, in piazza centinaia di migliaia di manifestanti imbeccati dal leader sciita Muqtada al-Sadr chiedono all’esecutivo maggior forza e decisione nel cammino del cambiamento. Negli ultimi mesi a Baghdad sono aumentate le forme di dissenso pubblico e le manifestazioni di piazza contro politica e istituzioni dello Stato - esecutivo e Parlamento - incapaci di arginare la diffusione della corruzione.
Negli anni il sistema politico irakeno, basato sul clientelismo, ha favorito la diffusione di una corruzione ormai endemica, che ha svuotato le risorse economiche già prosciugate dal calo dei proventi del petrolio. A questo si uniscono i costi della lotta contro lo Stato islamico (SI) e altri movimenti jihadisti.
Per questo i cittadini chiedono riforme strutturali serie, che siano in grado di contrastare il fenomeno della corruzione, e pene più severe contro funzionari o pubblici ufficiali coinvolti in episodi di malaffare. Il timore è che la - legittima - protesta di piazza dei cittadini venga manipolata da al Sadr (e dall’alleato iraniano) per giochi politici interni. 
Mons. Warduni racconta di una popolazione “molto stanca” per mancanza di lavoro, di risorse, di prospettive. “Un Paese ricchissimo - sottolinea - oggi è diventato poverissimo. Si dice che questa sia la terra del petrolio, ma che utilità ha per noi oggi se non abbiamo nemmeno il carburante da mettere nei generatori.  Sarebbe meglio non averlo - prosegue - perché è da qui che partono le nostre sofferenze… tutti vogliono il nostro petrolio, tutti vogliono le nostre ricchezze”.
Per mons. Warduni la realtà politica e istituzionale irakena è “un caos” nella quale “le opinioni cambiano ogni due ore”; egli giudica al contempo inopportuna l’intromissione di capi religiosi e potenze straniere (Europa, Stato Uniti) nelle questioni interne, che alimentano ancor più la confusione. “Serve la pace - sottolinea il prelato - e una lotta seria al traffico e alla vendita di armi. Non è vero che non si può fare nulla; anche voi cristiani d’Occidente, dove siete in questo anno della Misericordia? L’Iraq e i fedeli della nostra terra hanno bisogno di voi”.
Criticità e pericoli emergono anche nell’analisi del parlamentare cristiano Yonadam Kanna, leader dell'Assyrian Democratic Movement, membro della Commissione parlamentare sul Lavoro e gli affari sociali. Per salvare l’Iraq, spiega ad AsiaNews, è essenziale “restare uniti”, tutte le varie anime del Paese devono “combattere la medesima battaglia” contro obiettivi “comuni” come lo Stato islamico (SI) e la corruzione.
Egli non risparmia critiche a quella parte del Parlamento che con “urla, rumori e insulti al premier e al presidente” ostacola le riforme e il cambiamento. “L’Iraq è lacerato dai molti problemi - conclude il deputato cristiano - che non possiamo risolvere da soli, anche perché coinvolgono l’intera regione e le grandi potenze. Serve un comitato internazionale, sotto la guida delle Nazioni Unite, per trovare una soluzione nell’ambito costituzionale che garantisca pace e sicurezza, appianando gli scontri in corso fra sunniti e sciiti, fra Baghdad ed Erbil per citarne alcuni”. Infine, a livello regionale, serve maggiore collaborazione fra le nazioni dell’area, arrivando a un punto di “unità e comprensione reciproca”. “Arabia Saudita e Turchia da una parte e l’Iran dall’altra - conclude - devono trovare pure loro un’intesa, perché la situazione di conflitto ha un riflesso sull’Iraq”.

Bagnasco ad ACS per Fontana di TrevI: "Abbiamo bisogno di segni come questo"

 
«Imporporare la Fontana di Trevi sarà l’occasione per offrire a tutti un segno della presenza, ancor oggi, del martirio, e per innalzare al Signore una preghiera a favore dei cristiani perseguitati e di tutti coloro che sono oppressi, nell’auspicio che un’accresciuta sensibilità su questo tema porti, in tanti, frutti di impegno e attivo coinvolgimento».
Così il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, nel messaggio che ha inviato ad Aiuto alla Chiesa che Soffre in occasione dell’evento organizzato a Fontana di Trevi il prossimo 29 aprile alle ore 20. ACS illuminerà la fontana con fasci di luce rossa a ricordo del sangue versato dai martiri cristiani.
Il porporato si unisce alla fondazione pontificia nel sottolineare quanto sia essenziale favorire una maggiore sensibilità in merito alla persecuzione che affligge milioni di cristiani in tutto il mondo. Ed evidenzia l’importanza delle testimonianze che ACS ha voluto proporre nel corso dell’evento.
Alcuni amici e parenti ricorderanno martiri di oggi come Shahbaz Bhatti, Don Andrea Santoro, le quattro Missionarie della Carità trucidate a marzo in Yemen e gli studenti dell’Università di Garissa uccisi lo scorso anno in Kenya.
Seguirà poi l’intervento del vescovo caldeo di Aleppo, monsignor Antoine Audo, in quei giorni in Italia ospite della fondazione pontificia per testimoniare il dramma dei cristiani di Siria. «Abbiamo bisogno di segni – continua il cardinal Bagnasco e quello che compirete, unito alle testimonianze che saranno proposte, sarà un segno altamente evocativo, che spero si imprima nella mente e nel cuore di molti».
Nel lodare l’opera di Aiuto alla Chiesa che Soffre, il presidente della Conferenza episcopale italiana, sottolinea la necessità di «pregare e agire per i cristiani e con i cristiani che in ogni parte del mondo soffrono a causa dell’incomprensione, dell’odio e della persecuzione», i quali «ci rammentano che nella sofferenza si offre la testimonianza più alta, al punto che, come affermava un antico padre della Chiesa, “il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani”».
Infine il porporato – prima di invocare assieme a tutti vescovi italiani la benedizione su quanti parteciperanno all’iniziativa – si sofferma poi su Fontana di Trevi, che «nella sua architettura e nelle sue composizioni, offre una raffigurazione del mare»: «simbolo della globalizzazione, poiché congiunge tutte le parti del pianeta» e al tempo stesso «della migrazione di tanti fratelli, che attraverso il mare cercano salvezza e speranza».

26 aprile 2016

Iraq: patriarca Sako alla Chiesa universale, “sostenere la nostra Chiesa, che è Chiesa dei martiri”

By SIR
 
“A Baghdad vivevano 750 mila cristiani, adesso si sono ridotti a 200 mila. A Bassora di famiglie ne sono rimaste appena 500. I cristiani in Iraq sono perseguitati. Perseguitati da chi ci uccide, da chi distrugge le nostre chiese, da chi ci ha rubato tutto, da chi non mette freno alla corruzione, da chi non riconosce i nostri diritti. Per questo chiediamo alla Chiesa universale di sostenere la nostra presenza in Iraq, la presenza secolare della nostra Chiesa, che è Chiesa dei martiri”.
È l’appello lanciato da monsignor Louis Raphael I Sako, dal 2013 Patriarca di Babilonia dei Caldei, la comunità cristiana più numerosa dell’Iraq, in un’intervista rilasciata al settimanale diocesano “Nostro tempo” in occasione del convegno internazionale “Cristiani d’Oriente, dopo duemila anni una storia finita?” che si tiene oggi a Torino, per ricordare il 70° anniversario della fondazione del giornale, voluto da mons. Carlo Chiavazza.
Un appello seguito da una proposta molto concreta rivolta dal patriarca Sako alle diverse Conferenze episcopali d’Europa. “Venite a visitare il nostro Paese, i fedeli di tutto l’Iraq si sentirebbero meno soli e pieni di rinnovato coraggio e speranza”. Ma non basta. Il patriarca caldeo lancia un monito: “anche quando il Daesh (lo Stato islamico) sarà confitto, l’ideologia che lo guida rimarrà e continuerà a infettare il Paese. È proprio questa ideologia che bisogna combattere: devono farlo le autorità religiose islamiche, che devono preferire la diffusione di quei versetti del Corano che invitano alla tolleranza ed evitare di dare spazio a chi, tra essi, diffonde l’odio; e deve farlo il governo iracheno, che dovrebbe avere a cuore tutti i suoi cittadini”.
Alla Chiesa mons. Sako ricorda che “è indispensabile sanare e porre un freno al fenomeno dei sacerdoti che fuggono verso l’estero: come può un fedele essere invitato a resistere alle avversità, quando i sacerdoti fuggono? A Baghdad ci sono 32 parrocchie e 21 tra vescovi e sacerdoti, in Seminario solo 17 seminaristi. Chi è fuggito deve essere obbligato a tornare, la Congregazione per le Chiese orientali deve appoggiare di più e far rispettare le decisioni del Sinodo locale. Solo così la Chiesa in Iraq sarà più unita e più forte. E più forte sarà, più potrà aiutare i fedeli, non solo dal punto di vista materiale ma anche, e soprattutto, da quello spirituale”.

25 aprile 2016

Islamic State blows up Empress Eugenie's Clock Church in Mosul

By The Telegraph
Richard Spencer

Islamic State jihadists have blown up one of Mosul's best known remaining churches, known as the Clock Church after its tower, according to Iraqi news reports.
The clock tower was paid for by Empress Eugenie of France, wife of the last Emperor Napoleon III, as a gift to the Dominican Fathers who were building the church in the 1870s.
It gave its name to the neighbourhood around it, al-Saa - and overlooked it to the extent that the Dominican monks had to promise residents they would not climb the tower and peep down on residents sleeping on their roofs in the boiling summer months.
Islamic State of Iraq and the Levant made no statement about the destruction, and it was not clear why it should happen now.
They damaged and destroyed various historic sites and Christian and Muslim shrines and places of worship within a few weeks of taking over the city in June 2014.
But according to a number of outlets, the jihadist planted a number of explosives under it and detonated it on Monday morning.
Mosul has always been known as a city where Sunni Muslims, Christians, Shabaks, Arabs, Kurds, Assyrians, Armenians and Turkmens all co-existed, sometimes uneasily. It had more than 40 churches and monasteries at the time of the allied invasion of 2003.
Some had already been damaged by the time of the Isil takeover two years ago, including the Clock Church in a 2006 bombing.
The money for the tower was given by the Empress Eugenie as a reward for the Dominican friars' attempts to end an outbreak of typhoid in the city.
Isil are under pressure in Mosul, with Kurdish forces to the north and Iraqi government and Shia militia forces to the south threatening to launch a bid to retake it.
The US-led coalition has also been bombing Isil strongpoints in the city for months, including the university, which it has taken over as a base.
However, there has also been an outbreak of fighting between Kurdish troops and Shia militias south-east of the city, and in-fighting in Iraq's fractious politics makes a concerted attack unlikely any time soon.