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6 agosto 2007

Mosul, "snodo" dell'estremismo wahabita in Iraq

Fonte: Asia News

Voci irachene avvertono: la città è in mano al fondamentalismo sunnita più rigido, che mira allo Stato islamico; in questo piano, cristiani e sciiti non trovano posto e si rafforza l'"industria dei sequestri". La famiglia di un caldeo rapito ha già pagato due volte il riscatto, ma dell'ostaggio ancora nessuna traccia.

Mosul, nel nord-ovest irakeno, è ormai diventata lo "snodo principale dell'estremismo sunnita di stampo wahabita in Iraq”, che ad ogni costo mira a creare uno Stato islamico nella zona per poi ristabilire il califfato. Il progetto è sostenuto da "Paesi esterni" L'allarme arriva da fonti irachene di AsiaNews, che avvertono: questi fondamentalisti pensano di detenere l'unica verità e per questo eliminano tutti coloro che invece la rifiutano, primi tra tutti, i cristiani, ma anche i musulmani sciiti. Per il momento approfittano di loro per ricavare soldi, con sequestri e la riscossione della jizya - la tassa di "compensazione" chiesta dal Corano ai sudditi non-musulmani - ma con il tempo li costringeranno a lasciare le loro case.
Le violenze che dilaniano la comunità dei cristiani a Mosul hanno toccato il loro apice con il massacro del sacerdote caldeo, p. Ragheed Ganni e dei suoi tre suddiaconi lo scorso 3 giugno subito dopo la messa. Ma non conoscono tregua. Da una settimana un caldeo sposato è stato rapito; i suoi familiari hanno pagato due volte il riscatto, ma finora di lui non si ha notizia. Il 3 agosto un commando di terroristi è entrato nella casa del cristiano, Tamir Azoz, nel distretto di Al-Hadba’a, al centro della città, volevano portarlo via; lui, un uomo robusto - come raccontano i testimoni oculari - ha fatto resistenza, diceva che non avrebbe lasciato la sua famiglia da sola, abbandonata ad un destino incerto e alla fine è stato ucciso. "Il piccolo gregge dei cristiani - racconta un sacerdote della diocesi - è di nuovo nel panico e si sente isolato".

Mosul, "focal point" of Wahabi extremism in Iraq

Source: Asia News

Iraqi sources warn: the city is in the hands of rigid Sunni fundamentalists, who aim for an Islamic State; Christians and Shiites, find no space while the “kidnapping industry” gathers pace. The family of a kidnapped Chaldean has already paid a ransom twice over, but there is still no trace of the hostage.

Mosul, north west Iraq, has now become “the principal focal point of Sunni wahabi extremism in Iraq”, which aims to create an Islamic state at all costs in the zone and to re-establish the caliphate. This project is being supported by “outside countries”. The alarm arrives from AsiaNews sources in Iraq, who warn: these fundamentalists believe to posses the only truth and this is why they aim to eliminate anyone who refuses to recognise this. First among those are the Christians, but also Shiite Muslims. For the moment they content themselves with extorting money from their opponents, through kidnappings or the jizya – the “compensation” tax demanded by the Koran from non-Muslim subjects – but in time they will also begin to force them from their homes.
The violence which plagues Mosul’s Christian community reached its’ climax with the brutal murder of the Chaldean Priest Fr. Ragheed Gani and his three sub deacons June 3rd last following mass. But the violence persists. A married Chaldean has been in captivity for over a week; his family has already paid his ransom twice over, but have yet to receive news of his release. On August 3rd a command group of terrorists erupted into the home of Christian, Tamir Azoz, in the central Al-Hadba’a district, they wanted to take him away; eye witnesses tell that the well built man resisted, saying he would not leave his family alone abandoned to an unknown destiny and that in the end he was killed. “The small flock of Christians – says a local diocesan priestis once again in the grips of fear and panic, they feel isolated”.

2 agosto 2007

Il vescovo volante. Monsignor Kassarji, vescovo caldeo del Libano

Fonte: Tempi

di Rodolfo Casadei

Potrebbero chiamarlo il "vescovo volante" e nessuno avrebbe niente da ridire. Michel Kassarji, vescovo caldeo di Beirut, passa da una distribuzione di pacchi alimentari a un colloquio col capo dello Stato, da un'alzataccia nel mezzo della notte per correre alla frontiera dove è stato arrestato un gruppo di profughi iracheni per immigrazione clandestina a un appuntamento coi dirigenti dell'agenzia dell'Onu per i rifugiati per far sì che i fuggiaschi dal massacro iracheno ottengano lo statuto di protezione. Da un paio di anni i profughi cristiani iracheni sono diventati la sua ossessione. Meglio: l'urgente dovere che la Provvidenza gli ha assegnato.«Nella tradizione orientale ogni Chiesa è responsabile delle condizioni di vita dei suoi fedeli», spiega. «Non conta che questa gente non appartenga alla mia diocesi: anche se presi tutti insieme i profughi iracheni caldei sono numerosi quasi come tutto il mio gregge in Libano, non posso sottrarmi a questa responsabilità raddoppiata». Cinquecento pacchi alimentari al mese, 400 borse di studio per i figli dei profughi iscritti a scuole cristiane libanesi, la scarcerazione di decine di arrestati, l'ottenimento del riconoscimento dello statuto di rifugiato per decine di profughi, la gestione di un doposcuola e di un corso di recupero serale per i ragazzi che di giorno lavorano. Per essere una Chiesa che conta 6 mila fedeli in tutto il Libano, i caldei non potrebbero fare di più per i loro fratelli che arrivano dall'Iraq.

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In fila per il cibo
Attorno al vescovo si muovono da preziosi collaboratori soprattutto la segretaria Katy Osta, il manager Said Hakras e il tesoriere della Società caldea di beneficenza Georges Saman, un ex direttore di banca membro del Consiglio generale caldeo libanese che è il beniamino dei profughi: li visita nelle loro povere case, censisce i loro casi penosi e li riferisce al vescovo. «Ho trovato degli amici imprenditori disposti a dar lavoro agli iracheni per 300 dollari al mese e con orari lavorativi normali», spiega soddisfatto. «Sa, qua nessuno dà loro più di 10 dollari al giorno, e gli fanno fare di tutto in qualunque orario». La visita alle case in cui vivono i profughi nei quartieri popolari di Beirut in compagnia di Georges è un'esperienza toccante. Persone che disponevano di dimore dignitose o addirittura facoltose adesso vivono ammassate in monolocali o bilocali fitti di immaginette devozionali alle pareti, ma povere di mobilio e accessori. «Purtroppo alcuni si approfittano della povertà di questa gente», commenta amaro monsignor Kassarji. «Una signora con una figlia e col marito malato, per esempio, ha accumulato tre mesi di arretrati di affitto, e il padrone di casa sfrutta la situazione per abusare di lei. Noi la aiutiamo a pagare, ma non arriviamo a risolvere il suo problema».I colloqui coi profughi che il martedì e il mercoledì fanno la fila per ricevere un pacco alimentare del valore di 22 dollari Usa (contenente olio vegetale, zucchero, té, latte condensato, ceci, lenticchie, ecc.) terminano sempre con una richiesta da parte loro: «Vorremmo un posto come questo più vicino a dove viviamo, dove mandare a scuola i nostri figli e ricevere gli altri aiuti senza rischiare di essere arrestati dalla polizia per clandestinità». Monsignor Kassarji ci tiene tantissimo, ma la strada della fondazione di un centro di accoglienza per i profughi iracheni, completo di chiesa, scuola, ostello e centro ricreativo, è ancora molto lunga da percorrere. È una causa che chi vuole aiutare fattivamente i profughi cristiani iracheni dovrebbe far propria.


1 agosto 2007

IRAQ. L’appello del patriarca di Baghdad ai cristiani«Rimaniamo in questo Paese che è la nostra patria»

Fonte: 30 Giorni
Incontro con sua beatitudine Emmanuel III Delly, patriarca di Babilonia dei Caldei: «Io continuo a pregare tutti i politici, che favoriscano la pace in Iraq. Anche i mass media possono fare molto non screditando questo o quel gruppo. Le buone notizie incoraggiano la nostra gente a rimanere in questo Paese, che è la nostra patria, dove io personalmente resterò, sino all’ultima goccia del mio sangue, per dare coraggio ai fedeli caldei»

di Giovanni Cubeddu
«In quest’ora di autentico martirio per il nome di Cristo». Con queste parole papa Benedetto XVI il 21 giugno scorso ha dato la misura della sua totale partecipazione alla tragica sorte del popolo e dei cristiani iracheni. Aveva di fronte, all’assemblea della Roaco (la Riunione delle opere per l’aiuto alle Chiese orientali), il patriarca di Babilonia dei Caldei Emmanuel III Delly, presente a Roma, dopo aver presieduto l’ultimo Sinodo dei vescovi caldei. L’uditorio ha compreso che il giudizio del Papa sulla tragedia irachena equivaleva a un pieno sostegno al patriarca e al suo modo di operare quale capo e pastore dei caldei. Ormai da alcuni mesi i cristiani in Iraq sono vittime di un particolare accanimento da parte dei gruppi terroristici e criminali. A Baghdad in particolare, ma non solo. Il 3 giugno scorso a Mosul, padre Ragheed Ganni, sacerdote caldeo, e tre suoi aiutanti sono stati raggiunti da un commando che li ha freddati senza dire una parola. «Senza la domenica, senza l’eucaristia, non possiamo vivere» ripeteva padre Ganni quando parlava dei cristiani iracheni, riprendendo una frase dei primi cristiani. La morte di padre Ganni è soltanto una tessera del dolente mosaico dell’Iraq, che in tanti, dentro e fuori la Chiesa caldea, si affrettano a interpretare con diversi gradi d’intelligenza (o sincerità). È sufficiente, ad esempio, invocare le responsabilità di musulmani per leggere con una chiave appropriata quanto sta accadendo ai cristiani iracheni? Il primo a dubitarne è proprio il patriarca caldeo, per il bene stesso della sua Chiesa. Quanto segue è il frutto di una lunga conversazione con 30Giorni realizzata il giorno prima dell’assemblea della Roaco. L’indomani le parole di papa Benedetto lo avranno certamente confortato e alleggerito di tanti pesi portati fedelmente in silenzio.

Clicca su "leggi tutto" perl'intervista di 30 giorni a Mar Emmanuel III Delly, Patriarca di Babilonia dei Caldei
La tragedia irachena non accenna minimamente ad attenuarsi. Forse solo dopo l’uccisione di padre Ragheed Ganni ci si è accorti nuovamente che anche la Chiesa caldea sta pagando un prezzo elevatissimo. Che cosa ne dice?
"Invece di domandare che cosa pensa il patriarca caldeo, è meglio chiedersi ancora una volta che cosa sta succedendo in Iraq, a tutti, cristiani o musulmani… È vero, comunque, che in questi ultimi mesi la vita dei cristiani è peggiorata, nonostante fosse già tragica per gli iracheni di qualunque fede, cristiani, musulmani, mandeisti, yazidi... Il governo non può fare nulla, perché ci sono alcune persone che non vogliono il bene dell’Iraq in quanto tale. E io mi chiedo se siano autentici iracheni quelli che non vogliono il bene dell’Iraq. Non lo so. Ma so che un’autobomba falcia cristiani, musulmani, mandeisti e yazidi senza distinzione. E so che nell’anima di ogni iracheno oggi regna la paura: sorge il sole e nessuno sa se lo vedrà tramontare."
L’incrudelimento di questi ultimi mesi verso i cristiani come si è manifestato?
"Fino a ora abbiamo vissuto tutti all’interno di un regolamento di conti tra sunniti e sciiti che continua. Ora, chi siano questi fanatici violenti in coscienza non lo so, non conosco questi terroristi. E neanche il governo lo sa. I cristiani vivono in pace in Iraq da prima che arrivasse l’islam, sono stati loro ad accogliere i musulmani, e continuano a vivere in pace con loro, perché tutti ne traggono un comune vantaggio. Però oggi questo non basta più. A Baghdad e Mosul specialmente, e poi a Kirkuk o a Bassora, da qualche mese succede che questi gruppi di violenti bussino alla porta dei cristiani e impongano loro dapprima di pagare una somma come “multa”, costringendo talvolta tutta la famiglia ad affermare pubblicamente di essersi convertita all’islam, poi forzando il padre di famiglia a concedere subito una figlia in “sposa” a uno dei giovani della banda e infine ordinando loro di abbandonare immediatamente la casa, così com’è, e di lasciare il Paese «perché la vostra patria non è questa!"
Ultimamente sono state centinaia le famiglie di cristiani indotte con la forza a emigrare, e diverse decine sono state costrette a convertirsi all’islam. E poi ci sono i rapimenti: sinora, che io sappia, tra i rapiti che non hanno voluto convertirsi, ne sono stati uccisi molti. Ecco la nostra vita. La nostra gente è infelice, non sa più che fare."
Questi gruppi terroristici rappresentano il volto dell’islam in Iraq?
"No. Sono musulmani solo di nome. Il vero islam è quello che porta ad amare il prossimo, a fare del bene agli altri, seguendo i principi naturali dell’amore fraterno e del loro sacro libro. Costoro invece non amano l’islam, non amano l’Iraq, cercano solo il proprio interesse. Preghiamo per loro."
La fuga appare la sola via.
"Molti si sono rifugiati nel nord dell’Iraq, nei villaggi d’origine dei loro padri, ma… a fare cosa, senza più radici e senza possibilità di lavoro? Almeno, e ne ringraziamo il Signore, nel Kurdistan iracheno vive un grande benefattore, il ministro delle Finanze e primo ministro facente funzioni Sarkis Aghajan, che in questi tre anni ha fatto edificare settemila case per i cristiani immigrati e le ha fornite loro gratuitamente, assieme a quel minimo di denaro per sopravvivere. Ma cosa faranno i cristiani nel Kurdistan iracheno, se non c’è lavoro, se non ci sono imprese che assumono? Resteranno stranieri, anche nelle loro nuove case al nord…" Altri cristiani iracheni, come ormai milioni di loro connazionali, hanno deciso di emigrare altrove.
"In Siria, in Giordania, in Libano… o in Europa… Ma ottenere il visto d’ingresso per l’Unione europea è per un iracheno proibitivo: non vengono concessi. E s’aggiunge così dolore a dolore. Ecco, io prego tutto il mondo, tutti i governanti che hanno potere di fare qualcosa, di contribuire al ritorno della pace in Iraq, non solo per i cristiani, ma anche per i poveri musulmani che soffrono come noi: perché le loro famiglie sono esposte nello stesso identico modo a questi fanatici che usano il sopruso per guadagnare denaro facile."
Il giorno prima del funerale di padre Ragheed Ganni, un altro sacerdote caldeo era stato già sequestrato.
"Hanno rapito sacerdoti e religiosi cristiani, reclamando montagne di dollari di riscatto ogni volta, e finora ne hanno uccisi tre: un protestante, un ortodosso e da ultimo il nostro Ragheed Ganni. Povero padre Ragheed, ha finito di celebrare la messa ed è uscito dalla chiesa con i suoi tre aiutanti, tre suddiaconi. Ha preso la vettura per andare a casa ed è stato fermato. Gli hanno ordinato di alzare le mani e senza dirgli neanche una parola gli hanno sparato. Dopo l’omicidio di padre Ragheed, come sapete, un altro sacerdote è stato rapito, con quattro suoi aiutanti. Sono stati liberati solo perché stavolta abbiamo pagato per tutti il riscatto."
Come vi comportate generalmente in questi casi?
"E cosa possiamo mai fare? Se la taglia che ci impongono è di centinaia di migliaia di dollari, dove li prendiamo? Non li abbiamo. I fedeli caldei più benestanti sono già fuggiti dal Paese, e restano ormai solo quelli poveri o poverissimi, a cui non si può certo chiedere nulla, perché siamo noi che diamo loro di che sopravvivere. Allora, che cosa offriamo a questi banditi da cui riceviamo minacce? «O pagate o ritroverete lungo la strada un cadavere che vi appartiene!». In questa frase c’è l’Iraq di oggi."
È un quadro di desolazione.
"Ma, nonostante tutto questo, noi siamo e restiamo figli della speranza, perché noi speriamo nel Signore che queste nuvole nere passeranno presto, così da riavere nel nostro Paese la pace e tornare a vedere il sole. Come cristiani e, prima ancora, come iracheni."
Beatitudine, e le autorità pubbliche?
"Qualcuno una volta mi ha chiesto se tutto ciò che accade sia colpa del governo e ho risposto: «Sì, se un governo esistesse». Ma di fatto non esiste. In Iraq vige il caos, il caos autentico, e chi oggi “governa” non ha alcun potere. Anzi, sono i politici che chiedono protezione... E gli americani non possono fare niente, ci dicono: «It’s not our job», «non è affare nostro». Allora la colpa di chi è? Degli americani che ci hanno occupato. Del nostro governo – se esistesse – e di ogni potente del mondo che pure avrebbe il potere di dire una parola influente per frenare questo terrorismo, che in Iraq ha nel mirino tutti, musulmani e cristiani, e oggi specialmente i cristiani."
Già una volta papa Benedetto ha chiesto a tutti pubblicamente preghiere e digiuno per l’Iraq.
"E io continuo a pregare tutti i politici, che favoriscano la pace in Iraq. Anche i mass media possono fare molto, diffondendo notizie costruttive e non screditando questo o quel gruppo. Le buone notizie incoraggiano la nostra gente a rimanere in questo Paese, che è la nostra patria, dove io personalmente resterò, sino all’ultima goccia del mio sangue, per dare coraggio ai fedeli caldei. Rimangano, come sono rimasti i nostri padri e i nostri nonni che pure hanno superato circostanze difficili. Dico loro: rimanete, abbiate fiducia nel Signore, e nella nostra madre celeste Maria che ci proteggerà. Io incoraggio i miei cari fedeli a restare. Io sarò con loro, qui, sino all’ultima goccia del mio sangue, se il Signore mi vuole martire."
Lei si sta confrontando con i capi religiosi sciiti e sunniti?
"Non ho mai cessato di parlare con loro, con tutti loro… perché sia restituita la pace al Paese e ora, particolarmente, ai cristiani. Ma loro, come me, non sono attualmente capaci di fare alcunché. Dal presidente dell’Iraq sino all’ultima persona del mio popolo, non ho lasciato nessuno senza avergli rivolto una preghiera perché contribuisse a riportare la pace. E chiedo a tutti i cristiani di pregare il Signore perché stia con noi, e Lui stesso che è pace ridoni la pace all’Iraq, Paese di Abramo."
È stato scritto che nel vostro ultimo Sinodo si sarebbe discusso della possibilità per i cristiani di vivere in aree protette, riservate.
"Noi vogliamo l’Iraq per gli iracheni, perché siamo figli di una sola famiglia; non cerchiamo alcun “ghetto” per i cristiani. Abbiamo, come iracheni, nomi diversi, ma abbiamo il medesimo padre Abramo e una stessa patria. La terra ci unisce. È la nostra terra sin dall’inizio! Contro ogni divisione, purché la fede di ognuno sia rispettata. Ecco, la religione per ciascuno e una patria per tutti. Questa è la mia idea: tutto l’Iraq è per tutti gli iracheni. Non dobbiamo sceglierci un “angolo cristiano” e lì nasconderci, poiché sempre, come cristiani, abbiamo cooperato per lo sviluppo della nostra bella patria."
Nessun cristiano ha mai voluto reagire alle violenze?
"I cristiani non devono mai pensare di reagire con la forza, noi non usiamo le armi. Mai potrò consigliarlo. Gesù ha detto: «Pregate per quelli che non vi amano, per quelli che vi perseguitano e che dicono male di voi». Lui stesso ci ha insegnato così, e noi abbiamo fiducia che Lui ci aiuterà! Come responsabile dei miei cristiani, io non dirò mai loro di agire con la forza, ma di sopportare tutto e di pregare anche per i loro nemici."
Perché non reagire politicamente, cioè come movimento organizzato dei cristiani e fare pressione sull’autorità? I vescovi avrebbero così più voce in capitolo in politica…
"Ma come possono i cristiani, creando una loro piccola lobby politica, pensare di ottenere una risposta in questa situazione, quando nessuno ora ha il potere reale di cambiare le cose? I cuori e i desideri affidiamoli al Signore. A questo proposito mi lasci aggiungere una cosa. Ho fiducia che 30Giorni parli delle cose per come esse sono, che pubblichi non per proprio interesse ma per il bene delle anime e la salvezza del mondo. Altri giornalisti hanno fatto del male ai caldei, pubblicando notizie che hanno invaso il campo della Chiesa, procurando danno morale, spirituale e politico ai cristiani iracheni. La Chiesa caldea è stata e sarà pacifica, farà solo del bene a tutti, come ci ha insegnato nostro Signore Gesù Cristo.
Quando ha visto il presidente Bush fare visita in giugno a papa Benedetto, che cosa ha provato?
"Ho pensato: speriamo che il presidente Bush faccia ciò che ha espresso a parole, cioè usare tutto il suo potere per portare la pace nel mondo. Non solo in Iraq, ma in Palestina, in Libano... Speriamo solo che metta in pratica ciò che ha promesso al Papa."
Beatitudine, per i cristiani in Iraq oggi lei userebbe il termine “persecuzione”?
"Sì. Abbiamo avuto tanti morti, povera gente... La nostra sofferenza quotidiana è il nostro martirio – e alcuni tra noi hanno versato il sangue per difendere la nostra fede. Soffriamo perché portiamo il nome di cristiani. Centinaia di famiglie cristiane vengono cacciate via con la violenza. È martirio o no? In Iraq abbiamo convissuto con l’islam quattordici secoli, io stesso in passato non avrei saputo distinguere esteriormente tra sunniti e sciiti, o addirittura tra musulmani e cristiani: oggi invece è un discrimine tremendo. I musulmani di prima desideravano acquistare la loro casa vicino a quella di un cristiano, tanta era la concordia – e forse nel loro cuore è ancora così. Ma ora qualcosa è cambiato. Per questo chiedo a voi di pregare, e di far pregare gli altri perché il Signore doni questo spirito di carità, di fratellanza, di amore vicendevole. Non solo in Iraq, ma nel Medio Oriente, e ormai in tutto il mondo."