Mercoledi 22 aprile 2006.
Un altro, ennesimo, giorno nero per l’Iraq. Ieri il paese si è svegliato apprendendo della scomparsa di un altro suo capolavoro artistico: la cupola ricoperta da lastre d’oro che ornava la moschea sciita di Al Askariya a Samarra, a nord di Baghdad.
Era bellissima quella cupola. Guardandola dall’alto della Torre di Samarra, il minareto a spirale più famoso del mondo, l’oro che la ricopriva risplendeva al sole riverberandone la luce, ed illuminando così il paesaggio che dal color sabbia del deserto lontano si inverdiva avvicinandosi al Tigri.
Ora le immagini ci rimandano muri sgretolati ed ossature ferree che niente più hanno da sorreggere.
Samarra. La splendida capitale dell’impero Abbaside è di nuovo ferita. Lo è stata mille e mille volte alla morte di ogni bambino, di ogni uomo, di ogni donna che hanno pagato la storia maledetta di un paese bellissimo. Lo è stata cento e cento volte ad ogni distruzione che l’ha colpita, e che ha spinto l’UNESCO ad estendere la sua protezione da una singola opera d’arte a “tutto” l’Iraq, considerato patrimonio mondiale dell’umanità nella sua interezza, e sempre più in pericolo a causa della follia dell’uomo che nulla rispetta e tutto distrugge, anche ciò che è suo, in nome del potere.
Così la torre di Samarra, il minareto a spirale che per tutti è ormai la rappresentazione di quella che avrebbe dovuto essere la mitica Torre di Babele, ha perso la cima nell’aprile del 2005 quando alcuni ribelli l’hanno distrutta a colpi di mortaio per evitare che essa continuasse a servire ai cecchini americani come punto di osservazione e tiro. I cecchini americani su quella torre non ci sono tornati più, è vero, ma con essi è scomparso anche un pezzo di inestimabile valore artistico e storico.
Così oggi la cupola d’oro della moschea è rasa al suolo, e con essa la cupola maiolicata azzurra che le stava a fianco. Hanno retto i due minareti ed alcune delle mura esterne ma il danno è ancora più grave di quello inferto al minareto, perché diverso è il significato che le due opere d’arte rivestono.
La moschea di Al Askariya di Samarra è il terzo luogo santo dell’Islam sciita iracheno dopo le città sante di Najaf e Kerbala, ed è carica di significati religiosi che oggi sono stati sfregiati. Essa ospita infatti le tombe di due imam che nella linea di successione sciita hanno continuato l’opera di diffusione dell’Islam iniziata da Maometto, e se ciò non bastasse la tradizione vuole che proprio da essa sia sparito il Mahdi nell’874. Nella tradizione sciita il Mahdi rappresenta una figura particolarmente importante e venerata, il dodicesimo imam successore di Maometto, che scomparve e che tuttora è atteso da milioni di fedeli sciiti nel mondo per invitare l’umanità all'Islam, instaurando così la giustizia, la pace ed il benessere nel mondo intero.
Nella follia che ormai ha pervaso gli animi degli iracheni, da troppi anni sottoposti ad una violenza quotidiana che noi non riusciamo neanche a pensare, la lotta per il potere non risparmia nulla e nessuno, e così distruggere una moschea sciita è la risposta agli “Squadroni della morte” composti da sciiti appartenenti alle forze dell’ordine del governo attualmente in carica, ed accusati di una serie di esecuzioni (colpi in testa e mani legate dietro la schiena) di esponenti più o meno potenti della minoranza sunnita.
Questa mattina all’alba infatti, alcuni individui che indossavano delle divise sono penetrati nella moschea e vi hanno depositato delle cariche esplosive per poi innescarle e fuggire. Che il gesto rivestisse un’importanza superiore a quello di molti altri gesti che purtroppo insanguinano il paese ogni giorno è stato subito dimostrato dall’intervento del Grand Ayatollah Ali Al Sistani che dalla sua casa di Najaf e’ eccezionalmente comparso sugli schermi televisivi, dapprima invitando gli sciiti a sollevarsi ed a vendicare l’offesa subita, salvo poi correggere il tiro invitandoli alla calma ed a non attaccare le moschee sunnite per ritorsione.
Questo invito alla calma forse è stato dovuto al fatto che il Grand Ayatollah si è reso conto del rischio che le sue parole avrebbero potuto rappresentare, ma se consideriamo che un uomo saggio come lui non può non averle soppesate prima è più probabile che egli abbia avuto sentore, o certezza, di come il suo rivale interno, non per carisma ma per potere di mobilitazione delle masse, Moqtada Al Sadr, avrebbe potuto sfruttarle a proprio vantaggio.
Nella capitale, infatti, gli sciiti mobilitati dal giovane capopopolo Moqtada Al Sadr si sono riversati a migliaia fuori dal loro quartiere-ghetto ribattezzato Sadr City, un quartiere mostro di due milioni di abitanti in cui la rabbia per anni covata contro il regime e da esso brutalmente repressa, è esplosa, sotto la guida proprio di Moqtada Al Sadr, nell’opposizione violenta all’occupazione americana. Armati di bastoni e Kalashnikov, bandiere e pistole, i membri della sua milizia, l’Esercito del Mahdi, si sono riversati nei quartieri limitrofi incuranti degli appelli provenienti da Najaf, ed esaltati dalla possibilità di farla pagare ai sunniti, per troppo tempo veri ed unici padroni del paese.
Le loro urla di vendetta hanno risuonato per le strade di Baghdad sempre più vuote in attesa dello scoppio di tanta rabbia. E lo scoppio c’è stato, e moschee sunnite sono state attaccate e devastate.
Morti, feriti e tanta paura anche tra chi in questa lotta intestina interreligiosa parrebbe non entrarci nulla. E’ il caso di un sacerdote caldeo, Padre Douglas Al Bazi, colpito di fronte alla sua chiesa da una pallottola vagante sparata da una delle decine di auto in corsa e piene di uomini armati decisi a farsi giustizia dell’offesa di stamani a Samarra.
“Ho sentito dire che 25 moschee sunnite sono state attaccate oggi nel paese” mi dice con voce affaticata il sacerdote. E’ appena tornato dall’ospedale dove solo oggi pomeriggio, dopo molte ore dall’incidente, è riuscito ad arrivare. “Mi hanno fatto delle lastre e risulta che ho scheggia nella gamba sinistra, sotto il ginocchio, ma non possono toglierla, mi hanno solo fatto delle iniezioni di antibiotico e dovrò farne ancora.”
“Cosa pensi succederà ora?” chiedo. “Non lo so, so solo che quando è scoppiato il caso delle vignette su Maometto pubblicate in Danimarca hanno attaccato la mia chiesa (il 29 gennaio scorso) ed oggi che la moschea sciita di Samarra è stata distrutta io sono finito in ospedale ed ho una scheggia nella gamba.”
“Ed il futuro?” “Penso che l’unica scelta che avremo sarà quella di lasciare il paese. Non c’è governo, non c’è sicurezza, cosa possiamo fare?”
Queste parole così scoraggiate, perdenti, riflettono benissimo i sentimenti di chi è al limite della sopportazione umana, specialmente perché pronunciate da colui che, subito dopo i primi attacchi coordinati alle chiese irachene, il primo agosto del 2004, fece ferro e fuoco per tornare in patria dall’estero ed essere così vicino ai suoi fedeli.
Ad oggi non si sa come e se la situazione cambierà, se e come un accordo politico convincerà Moqtada Al Sadr a ritirare le sue milizie. Certo non serviranno i giorni di lutto proclamati sia dal governo sia dal Grand Ayatollah Al Sistani, come non servirà il coprifuoco imposto dalle otto di sera alle sei del mattino. La luce del sole che in questo periodo già splende caldo in Iraq non ha fermato in questi anni le violenze, e certo non lo farà la calma imposta della notte.
Padre Douglas Al Bazi è il referente iracheno per il progetto “Io ho un nuovo amico, un sacerdote caldeo iracheno” curato dall’Ufficio Pastorale Migranti dell’Arcidiocesi di Torino. Ad egli vanno i migliori auguri di pronta guarigione da tutti coloro che in Italia lo hanno conosciuto, che hanno collaborato con lui e che hanno sostenuto i progetti di aiuto alla comunità cattolica caldea di Baghdad.