"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

12 giugno 2017

Patriarcato caldeo: dopo il genocidio dell’Isis, dialogo, giustizia e unità per ricostruire l’Iraq


Un dialogo “coraggioso e responsabile” per alleviare le sofferenze di quanti hanno perso la loro casa e ogni bene in seguito all’ascesa dello Stato islamico (SI) nel nord dell’Iraq. E ancora, garantire “giustizia e uguaglianza” nel contesto di uno “spirito di unità nazionale”, che guardi al “bene pubblico” in base ai dettami sanciti “dalla Costituzione”. È quanto auspica in una nota,  pubblicata sul sito del patriarcato caldeo, il primate della Chiesa irakena mar Louis Raphael Sako, a tre anni dalla presa di Mosul da parte delle milizie jihadiste.
Nel suo intervento il prelato ricorda il “dolore e lacrime” che ancora oggi emergono fra la popolazione cristiana costretta a lasciare le proprie case e le proprie terre, mentre è iniziata da poco una lenta e faticosa opera di ricostruzione. Una tragedia tuttora in atto che i vertici della Chiesa irakena non esitano a definire un “genocidio”. Ringraziando il lavoro di quanti si sono prodigati per la liberazione di parte di Mosul e della piana, in particolare fra i militari e i Peshmerga curdi, il patriarcato ricorda la condizione dei cristiani tuttora “sfollati”, le loro case e le chiese “bruciate o distrutte”. La ricostruzione di abitazioni e infrastrutture, prosegue la nota, è anche una grande “opportunità di lavoro” e l’occasione per garantire “pace, sicurezza e stabilità” al Paese, rafforzando l’obiettivo dell’unità minato da vecchie e nuove mire autonomiste. Fra queste le rivendicazioni di alcuni gruppi cristiani per la creazione di un’enclave cristiana nella piana di Ninive - un progetto che il patriarca Sako osteggia da tempo - e il referendum curdo per l’indipendenza.
Secondo un rapporto pubblicato di recente, fino all’80% della popolazione cristiana originaria ha abbandonato in questi anni l’Iraq e la Siria, a causa della guerra e dell’escalation dei movimenti estremisti di matrice islamica. Iniziato nel 2003 con l’invasione statunitense in Iraq, l’esodo ha subito un’accelerazione nel 2011 con l’inizio del conflitto siriano. Infine, nell’estate del 2014 l’ascesa dello Stato islamico nel nord dell’Iraq ha segnato il culmine delle violenze.
Sebbene non sia possibile stabilire con certezza la portata dell’esodo, il numero dei cristiani in Iraq - già scesi a 300mila nel 2014 rispetto al milione e più sotto il regime di Saddam Hussein - è crollato a poco più di 200mila, al massimo 250mila. Nella vicina Siria è dimezzata rispetto ai due milioni del 2011, prima dell’inizio della guerra. Inoltre, con il trascorrere del tempo la comunità cristiana sembra perdere sempre più la speranza di poter tornare. Una parte ha trovato rifugio nelle nazioni dell’area - Libano, Giordania su tutte - in condizioni spesso di precarietà. Altri sono emigrati in Europa, Stati Uniti, Canada e Australia, le principali nazioni della diaspora. Alla base dell’esodo vi sarebbero l’alto costo di vita, la mancanza di lavoro e di opportunità educative, la distruzione delle cittadine cristiane e la perdita del senso di comunità. Da qui il nuovo appello alla giustizia e agli aiuti per i cristiani, in particolare per quanti hanno deciso di restare nelle loro terre e di contribuire all’opera di ricostruzione.
Proprio in questi giorni ricorre il terzo anniversario della presa di Mosul da parte delle milizie dello Stato islamico, che nel giugno del 2014 assumevano il controllo della seconda città per importanza dell’Iraq. Dall’ottobre scorso è in atto una offensiva promossa dall’esercito irakeno - con il sostegno di milizie curde e sciite - per riprendere l’intero controllo della città. Il settore orientale è ormai liberato dalla presenza jihadista, come la quasi totalità della pianura di Ninive, ma restano ampie sacche di resistenza nella zona occidentale di Mosul e nella Città Vecchia. Uno scontro durissimo che ha già causato morti fra la popolazione civile, spesso usata come scudo umano dai terroristi, e alimentato un esodo che ha coinvolto centinaia di migliaia di famiglie.
L’8 giugno scorso il patriarca Sako si è recato in visita, per la prima volta dall’ascesa di Daesh [acronimo arabo per lo Stato islamico] nelle zone liberare di Mosul, in compagnia del vice mons. Basilio Yaldo e di una delegazione di politici e militari. Il prelato ha visto con i propri occhi la situazione di alcuni dei luoghi sacri cristiani più importanti della città. Fra questi la parrocchia di Santo Spirito, teatro nel giugno 2007 dell’assassinio del sacerdote caldeo p. Ragheed Ganni, assieme a tre suoi aiutanti diaconi. Nel contesto della visita (nella foto) sua beatitudine ha ringraziato le forze armate irakene per la loro lotta contro il gruppo jihadista e ha chiesto di assicurare la protezione delle cittadine cristiane della piana di Ninive, fra cui Qaraqosh, Karemles e Bartella.