"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

22 novembre 2016

Iraq: “Dopo Isis evitare le vendette”

By Oasis

Pubblichiamo la traduzione dall’arabo di una lettera comparsa sulla rivista del patriarcato di Babilonia dei Caldei, Najm al Mashreq, n.87 (2016), firmata dal patriarca Louis Raphaël Sako, prima dell’inizio della campagna militare per riprendere la città di Mosul dallo Stato Islamico.
[Traduzione di Marina Eskandar]

Noi cristiani siamo chiamati a camminare sulle orme del Signore Gesù Cristo – a Lui la Gloria – per essere predicatori di pace, messaggeri alla sequela della carità per il bene dell’umanità tutta intera. Come i nostri padri e i nostri antenati in questa terra benedetta seminarono, assieme al frumento, monasteri, e piantarono assieme alle palme chiese, scuole e ospedali che irrigarono con il loro sangue diventando martiri della fede e  testimoni di Cristo, così noi, che siamo loro figli e discendenti, dobbiamo seguire i loro passi e custodire ciò che abbiamo ereditato nei millenni: una terra, una storia, una lingua, dei valori e una spiritualità. Sono un patrimonio che dobbiamo custodire, un messaggio che ci colma di fiducia che la luce di Dio dissolverà le tenebre, e risplenderà su di noi con la sua luce e la sua pace.
Nel secondo anniversario della tragedia vissuta dagli abitanti di Mosul (10-17 giugno 2014) e delle città della Piana di Ninive (nella notte tra il 6 e il 7 agosto 2014) ritorna alla mente la lettera “nun” (ن) con cui i persecutori marcarono le case dei cristiani di Mosul e di altre città, perché fosse un simbolo della loro identità religiosa. Se riflettiamo sulla “nun” (la “nun” siriaca) – pesce in siriaco, su come i cristiani perseguitati utilizzassero il termine ichthus, pesce in greco, ai tempi della chiesa primitiva nelle catacombe romane per identificarsi tra loro – le lettere iniziali erano espressione della loro fede in Cristo –, e su come oggi il segno si sia invertito, notiamo nel ritorno così forte della “ن” dopo circa duemila anni una similarità che non è puramente casuale ma è certamente un segno dei tempi, una lezione cui occorre prestare attenzione e su cui bisogna riflettere.
Oggi ricordiamo questi eventi dolorosi e tristi, il terrorismo delle diverse organizzazioni non è ancora stato sconfitto, gli scontri non sono finiti, i diritti umani continuano a essere violati in più ambiti, i tentativi di pacificare la nazione falliscono, le promesse di riforma, di abolizione della corruzione, di costruzione di uno Stato laico, e di lotta alla disoccupazione, alla povertà, all’analfabetismo e alle malattie non sono state realizzate.
Ciononostante gli iracheni, di tutte le fazioni, aspirano a un domani migliore, soprattutto ora che si iniziano a riportare alcune vittorie e l’Isis retrocede. A questo proposito è stato importante accelerare l’operazione per la liberazione di Mosul e delle città della Piana di Ninive, e l’aver dato agli abitanti la possibilità di tornare nelle loro abitazioni una volta garantita loro la protezione necessaria. Dal momento che la liberazione delle terre irachene è imminente, è necessario proporre alcune idee pragmatiche per la fase post-Isis:
  1. Si invitano gli iracheni a ragionare in modo obbiettivo, ad agire con razionalità, evitando le vendette, rileggendo l’attuale e preoccupante situazione per evitare di essere trascinati verso ulteriori spargimenti di sangue e distruzione. L’unione è la loro salvezza.
  2. Si affronti chiunque tenti di “scippare” la nazione e la religione per il proprio tornaconto personale, affermi di esserne il custode e, in loro nome, inciti a uccidere civili, distruggere istituzioni e infrastrutture, allontanandosi totalmente dalla natura della convivenza e dalla fratellanza, e dalla natura della religione. A tale riguardo, chiediamo alle autorità politiche e religiose di delegittimare e sconfessare chi tiene questa condotta distruttiva.
  3. Si chieda a chi sostiene queste organizzazioni distruttive, finanziandole e fornendo loro armi, di desistere dal commettere quei gravi peccati. Il terrorista non è solamente colui che compie l’atto terroristico, ma chiunque produca questo pensiero distruttivo, lo diffonda e lo finanzi. Siamo di fronte a un pericoloso inquinamento del pensiero che minaccia l’equilibrio religioso, confessionale ed etnico nella regione in cui era rimasto saldo per tutti questi secoli.
  4. Si respinga il sentimento di frustrazione che domina su molti: nessuno può dire che sia un sentimento ingiustificato perché tutti noi condividiamo lo stesso dolore e viviamo questa sofferenza, ma arrendersi alla disperazione uccide lo spirito e spegne la speranza in un domani migliore.
  5. Il pensiero estremista non sarà eliminato se non da un pensiero aperto e sano. Occorre mobilitarsi per smantellare questa ideologia costruendo una cultura nuova e una prospettiva chiara fondata sui valori dell’incontro, dell’accettazione reciproca, del rispetto dell’umanità, rafforzando la pace, la stabilità, la giustizia e l’uguaglianza che condividiamo, e tornando a edificare l’essere umano prima ancora degli edifici. Il fallimento di un Stato non significa solo lo svuotamento delle sue casse, ma anche la mancanza di figli dotati di capacità ed esperienza che credono nel loro Paese.
  6. Si lavori alla creazione di un sistema politico civile che funga da nuovo patto sociale (Costituzione), risolva le cause della crisi rimanendo lontano dai presupposti settari, nazionalistici, religiosi e di partito, e rispetti i margini di rappresentanza e partecipazione di tutti. Gli iracheni diventeranno figli della grande famiglia irachena e, nelle loro varietà e fazioni, saranno un segno luminoso.
Oggi, quando alcuni cristiani ci chiedono di agevolarli nell’emigrazione, sostenerli nei loro sforzi per ottenere rifugio in uno Stato piuttosto che in un altro nella speranza di avere un futuro più sicuro e garantito, noi comprendiamo le loro sofferenze e le loro preoccupazioni per il futuro dovute all’estremismo religioso, alle emigrazioni forzate, al cambiamento demografico, alla confisca delle abitazioni e delle terre, alle leggi che violano i loro diritti, e al fatto che la loro presenza venga ignorata e non siano coinvolti nel processo decisionale. Noi diciamo loro: non temete, il Dio in cui avete riposto le vostre speranze e per la cui fede avete abbandonato le vostre case a mani vuote vi farà tornare sani e salvi nelle vostre case, e le vostre sofferenze avranno fine insieme alla peregrinazione.
Noi, come Chiesa, esprimiamo il nostro profondo dolore e la nostra tristezza per le vittime di tutti gli attacchi terroristici, e condanniamo con forza gli eventi orribili in cui molti innocenti hanno perso la vita o sono stati costretti a emigrare. Rinnoviamo la certezza della piena solidarietà della Chiesa verso tutte le parti colpite e preghiamo per i martiri, i feriti, i dispersi e le persone costrette a emigrare. La preghiera e l’unione sono le nostre armi per combattere l’ingiustizia. Noi non portiamo armi (la difesa dei civili è dovere dello Stato), se non una croce che ci chiama a una fede vera, una fede che esprimiamo nella preghiera, nel servizio della carità e della misericordia, nella pazienza e nella perseveranza, e dando il nostro contributo nella realizzazione della pace e della comprensione reciproca. Poniamo dunque la nostra speranza in Dio, affidiamoci a Lui, e restiamo fedeli alla nostra vocazione per quanto grandi dovessero essere i sacrifici.