"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

1 ottobre 2014

"Non sono crociati. Difendono solo le donne e i loro figli"

By SIR
Daniele Rocchi

La Croce e il mitra: un binomio improponibile almeno per chi professa la fede cristiana e per chi fa del comandamento dell’amore il proprio stile di vita e di comportamento. Ma quando si è minacciati di persecuzione e di morte come sta accadendo da mesi ai cristiani iracheni dopo l’avanzata dei miliziani dello Stato islamico (Is), allora la situazione può cambiare. È quanto sta accadendo tra i fedeli iracheni, molti dei quali - per il momento stime parlano di circa duemila volontari - hanno deciso d’imbracciare armi e formare gruppi armati per contrastare i jihadisti, per nulla convinti che sia i peshmerga curdi sia l’esercito regolare iracheno abbiano forze e capacità sufficienti per proteggerli.
Risale allo scorso 11 agosto la nascita della Brigata cristiana in Iraq, che secondo alcune fonti locali, è attiva in zone della Piana di Ninive con compiti di controllo e vigilanza nei diversi check point sparsi nel territorio. A distinguere i suoi componenti dai combattenti curdi è lo stemma cucito sul braccio: il drappo assiro con fondo bianco con due fucili di colore nero incrociati e il nome della brigata, “Dwekh Nawsha” che nel dialetto da loro parlato significa “martirio”. Secondo quanto riporta il sito assiryanvoice.net, la brigata per il momento conta sull’apporto di circa 100 volontari. “Non siamo molto numerosi, ma la nostra fede è grande”, afferma uno dei comandanti della Brigata, il luogotenente Odicho, incaricato dell’addestramento. La Brigata “Dwekh Nawsha” non sarebbe, tuttavia, l’unica. Diversi analisti parlano di “battaglioni” cristiani e yazidi addestrati dai curdi. Si tratta, in molti casi, di persone fuggite in Kurdistan dopo la marcia dello Stato islamico su Mosul e sulla Piana di Ninive dove sono situati molti villaggi cristiani. Non si può certamente parlare di milizie confessionali, come quella di “Forze libanesi” che pure ha combattuto nella guerra civile nel Paese dei cedri dal 1975 e il 1990. Il suo leader Samir Geagea ha già comunicato la disponibilità a sostenere le nascenti brigate assire. Minoranza cristiana in armi già dal 2012 anche nella regione curda nel Nord-Est della Siria dove molti fedeli hanno imbracciato il kalashnikov a fianco dell’esercito di Assad per difendersi dai miliziani non solo dell’Is ma anche dai qaedisti di al Nusra. Fonti locali siriane all’epoca parlavano di “sentinelle e non di combattenti” con i vescovi che, dal canto loro, esortavano a rinunciare a combattere e ad avere pazienza.

Oggi sul campo la situazione è peggiorata. L’Is ha occupato ampi territori in Siria e Iraq e solo i raid aerei della coalizione messa in piedi dagli Usa stanno rallentandone l’avanzata. Le conversioni forzate, rapimenti e stupri di donne e bambine, decapitazioni, saccheggi, distruzioni di chiese e luoghi di culto e abusi di ogni tipo contro l’impotente minoranza cristiana e yazida chiedono risposte certe dalle Nazioni Unite e dalla comunità internazionale. Che tardano ad arrivare. Da qui la necessità quantomeno di difendersi, come spiega il vescovo ausiliare caldeo di Baghdad, monsignor Shlemon Warduni, che pure evidenzia il non coinvolgimento della Chiesa nella nascita delle milizie cristiane. “Chi ha deciso di creare milizie o gruppi armati cristiani - avverte subito - non ci ha chiesto pareri né tantomeno ci ha consultato per avere consigli. Va detto che seguendo i principi cristiani contenuti nel Vangelo e nell’insegnamento di Cristo, noi cerchiamo la pace fondata sul comandamento dell’amore, ama il tuo prossimo come te stesso”. Tuttavia, aggiunge subito, “difendere la propria incolumità, i propri familiari, la propria casa da chi vuole strappartela è legittimo”. Per mons. Warduni non si tratta di “armarsi per fare la guerra ma per difendere la nostra vita e proteggere quella di chi amiamo, i nostri figli, le nostre donne, i nostri anziani. Non vogliamo provocare altre ingiustizie, tantomeno se perpetrate ai danni di altri”. “La difesa personale è legittima. Non difendersi in questi casi significa morire” ribadisce il presule. “Ci chiedono di lasciare tutto, di convertirci. I nostri fedeli non rinunceranno mai alla loro fede, per questo è giusto difendersi. È giusto per il bene degli altri, dei nostri cari. Chi ha moglie e figli deve garantire loro rispetto, diritti e soprattutto dignità. Non vogliamo fare la guerra e nemmeno andarcene costretti dalla violenza”.
Forse l’alba di una nuova Crociata? “Chi dice che stanno nascendo dei nuovi crociati - dice con tono fermo il vescovo - sbaglia e così facendo fomenta il conflitto. Sono bugie che incendiano gli animi distruggendo ogni possibilità, anche minima, di dialogo che per noi resta la prima opzione. Se solo la comunità internazionale, il Governo del nostro Paese avessero fatto i passi giusti e necessari per aiutare e difendere la popolazione - conclude mons. Warduni - oggi non staremmo qui a parlare di armi e di milizie. Chiediamo il giusto rispetto e dignità. Gridiamo all’Onu e alla comunità internazionale di aiutarci ad avere i nostri diritti. Urge una forza internazionale che difenda i nostri popoli. Possibile che il mondo non riesca a fermare queste poche migliaia di miliziani con le bandiere nere?”.
27 settembre 2014